Leonida di Taranto

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LEONIDA DI TARANTO
ovvero
il poeta errante
272 a.C.: le legioni romane irrompono nella ridente città di Taranto e seminano il panico. Un ragazzo è fatto schiavo, un uomo riesce a scappare, ... il destino si compie per una città, per un uomo, per una letteratura. Il ragazzo, uno dei tanti, arriverà a Roma e diventerà Lucio Livio Andronico; l’uomo aveva un nome glorioso, LEONIDA, ed avrà un futuro ricco solo di miseria e peregrinazioni.
Quando si dice il destino!

Il personaggio di cui parliamo è proprio Leonida di Taranto: sfortunato, povero, tradito dalla vita. Era sicuramente un grandissimo poeta: chi potrebbe negarlo? In un mondo, però, che aveva visto mostri sacri come il divino Omero ed il didascalico Esiodo; il virulento Ipponatte e Bacchilide, dalla voce di usignolo; Saffo di Lesbo, musa dell’amore e del sentimento; i tragici Eschilo e Sofocle; il grandissimo comico Aristofane ed il beffardo Eupoli e poi Callimaco, Teocrito, Eroda e tanti altri ancora, è possibile che anche un grande sia messo in ombra. E questo è successo proprio al nostro poeta. Quanti, infatti, conoscono Leonida di Taranto? Non molti, soprattutto se parliamo di gente non attratta particolarmente dal mondo e dalla cultura ellenica!

Eppure stiamo parlando del più grande poeta epigrammatico greco, di un autore che fu imitato anche da importanti e conosciutissimi poeti latini come Properzio e Ovidio; stiamo parlando del principale esponente della scuola epigrammatica. E neppure bisogna credere che l’epigramma sia stata una disciplina minore: in epoca alessandrina, infatti, tutti i grandi poeti, anche Callimaco, scrissero epigrammi. Non solo! Anche grandi lirici e tragici, nonché filosofi (tra i quali Platone) ne scrissero di perfetti.

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La vita

Leonida nacque a Taranto verso il 320 a.C.. Quando nel 372 a.C. la sua città fu occupata dai Romani, egli, per evitare la morte o un probabile futuro da schiavo, tentò scampo nella fuga ... e ci riuscì. E' interessante, dal punto di vista umano, fare il paragone tra le sue vicende e quelle di Livio Andronico, suo concittadino. Quest'ultimo, ancora ragazzo, non riuscì a fuggire e, preso prigioniero, fu condotto schiavo a Roma. La sorte, però, in seguito gli fu favorevole; infatti, approfittando dell'ignoranza dei Romani in fatto di letteratura e poesia, si diede da fare per tradurre le opere greche in lingua latina e divenne, si può dire, l'iniziatore della letteratura latina. Il povero Leonida, invece, fortunato in un primo momento perché era riuscito a scampare alla prigionia, ebbe in seguito una vita errabonda e misera, come descrive molto bene in un suo epigramma: "Vivo una vita che vita non è".

Lasciata la patria, il poeta se ne andò in Epiro, poi in Macedonia ed infine in Grecia, camminando senza meta, spostandosi nelle varie città, vivendo tra la povera gente, dividendone la propria cattiva sorte.

Dopo aver a lungo errato, Leonida morì verso il 260 a.C..

Le opere

Dell’opera di Leonida ci rimangono 98 epigrammi (più due di autenticità dubbia), che sono contenuti nell'antologia palatina.

Egli scrisse per lo più epigrammi funerari, ma è molto difficile che questi gli dessero da vivere, ancorché dignitosamente. Molti di essi devono essere necessariamente fittizi poiché parlano di povera gente, persone che certamente non avevano i soldi per pagarsi un epitaffio e, forse, neppure la tomba su cui inciderlo. Non per questo, però, deve nascere in noi il sospetto che questi epigrammi sorgono da finzione erudita; più giusto è sostenere che sono il frutto dell’osservazione diretta e chiara della realtà; per questo potremo definirlo un poeta realista.

Sicuramente fittizi sono, ovviamente, gli epigrammi funebri che Leonida scrisse in onore dei poeti del passato, come quelli dedicati ad Omero, Ipponatte, a Pindaro (“tanto caro ai suoi concittadini quanto agli stranieri fu Pindaro, servo delle Muse e dalla bella voce”), ad Alcmane (“Qui giace Alcmane, eccellente cantore di Imeneo, amato dalle Muse. Di lui si vanta Sparta che lo liberò dalla schiavitù. Dalla schiavitù della vita, però, si liberò da solo, buttando via il fardello che lo tratteneva. Fu così che Alcmane si avviò verso l’oltretomba”). Da essi, però, traspare un’eccellente capacità critica ed acutezza di giudizio.
Leonida, poi, compose dei 'carmi in onore del dio Priapo', dando così inizio alla tradizione dei "Carmina Priapea".

Giudizio

Nella poesia di Leonida, in genere, sono trattate persone del popolo, la povera gente in mezzo alla quale egli visse prima e dopo il soggiorno in Epiro, colte e disegnate con pochi e geniali tocchi, con tratti in cui il suo parlare è virulento e forte ricordandoci qualcosa di ipponattea memoria, anche se, in verità, mai il suo linguaggio è così sboccato. E poiché molti suoi epigrammi sono dedicati agli attrezzi di lavoro da parte di artigiani giunti alla fine della giornata lavorativa, potremmo anche definire Leonida il poeta dei poveri, il cantore degli umili e dei lavoratori.

Leonida, come è proprio della sua scuola, abbraccia tutti i campi della vita: ora lo si può cogliere mentre descrive una scena idilliaca di pastori, ora mentre la visione della morte di una vecchietta lo prende come unica speranza di riposo. In effetti, da alcuni epigrammi sembra che l'idea della morte sorrida al vecchio poeta randagio e stanco come l'unica possibilità di riposo per una vita così amara e travagliata. Però non è sempre così; a volte il poeta diventa più rude ed ha paura come tutti i mortali del tempo infinito che c'è dopo la morte: allora una volta nati è meglio vivere.

Un epigramma

Riportiamo alcuni epigrammi tra i più significativi di Leonida.
In questo bellissimo epigramma il poeta, pur amareggiato dall’esilio, è felice perché le muse gli hanno dato il dono della poesia:
Molto lontano dalla terra d'Italia io giaccio, e da Taranto
mia patria: e questo per me è più amaro della morte.
Tale la vita invivibile dei mortali; ma me le Muse
'amarono, ed ho miele anziché sventure.'
'Non è caduto il nome di Leonida: questi doni'
delle Muse mi annunceranno in ogni tempo.
Il desiderio della morte, come fine di una vita inutile, sembra cogliere Leonida in quest’altro epigramma:
Mi tengo come la vita al broncone!
La morte mi chiama dall’Averno.
Non fare il sordo o Gorgo!
Perché credi una goduria
riscaldarti al sole per altre tre o quattro estati?
Con queste parole, dette quasi con indifferenza,
il vecchio lanciò lontano la vita
e si avviò nel mondo dei più.

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