Esercito romano
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L’ESERCITO
di
Marco
La guerra e la protezione divina
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Un popolo guerriero
Roma era circondata da popoli potenti e ricchi: gli Etruschi che un tempo dominavano su quasi tutta l’Italia, i Sabini, popolo fiero e ricco, gli Umbri, gente dura e tenace, i Latini, pratici e realistici. Se questa città fosse stata conquistata e sottomessa, se non avesse lasciato alcuna impronta nella storia, sarebbe stato un fatto normale. Invece Roma diventò…Roma! Un popolo che riuscì ad emergere tra così potenti nemici e poi conquistare e mantenere un impero che inglobava tutto il mondo conosciuto doveva per forza di cose essere in possesso, oltre che di una grande volontà di dominio e di potenza, anche e soprattutto di un poderoso esercito e di tattiche di guerra superiori a quelle dei propri vicini. E, in effetti, l’esercito romano fu invincibile per almeno otto - nove secoli: cosa gli diede tanta forza e per così tanto tempo?
Il romano non era diverso dai suoi conterranei e contemporanei; in qualche aspetto era addirittura inferiore: non aveva ad esempio la potenza fisica dei Celti e dei Germani … eppure, superato il primo impatto con i Galli Senoni di Brenno nel 390, li sconfisse in ogni occasione successiva; non aveva “armi segrete” come gli elefanti di Pirro … eppure neutralizzò “quegli antichi carri armati”; non era un popolo marinaro, ma distrusse Cartagine, la più grande potenza marittima dell’epoca. Quale era allora il suo segreto? La superiorità romana nelle imprese belliche era dovuta ad una serie di fattori: la perfetta organizzazione della struttura militare, il rigore dell’addestramento, l’adozione di strategie commisurate ai mezzi a disposizione, alla natura dei luoghi, alle caratteristiche del nemico. In pratica nulla era lasciato al caso: i soldati erano ben motivati, i rituali e le pratiche religiose rispettate, gli accampamenti costruiti con particolare cura. Questi ultimi, ad esempio, diventavano veri e propri paesi: avevano una struttura regolare ed erano circondati da un fossato e da una palizzata; al loro interno vi erano le tende per l’alloggiamento dei soldati; al centro si trovava uno spiazzo con la tenda del comandante e un altare per i sacrifici. I soldati difendevano il loro accampamento come se fosse stata la loro città.
Un grande punto di forza dell’esercito romano era la disciplina, ma giocava la sua parte anche il fatto che era necessario aver militato nell’esercito per accedere alle cariche politiche, che per buona parte coincidevano con quelle militari. Ricordiamo a tal proposito che il console era sia la massima autorità civile sia quella militare. Tutti gli uomini liberi della penisola erano chiamati alle armi. Dai 17 ai 45 anni (iuniores) erano destinati alle guarnigioni mobili per il pronto impiego nei luoghi richiesti, e dai 46 ai 60 anni (seniores) erano destinati alle guarnigione territoriali per presidiare le città in tempo di guerra. In pratica si era soldati per tutta la vita.
Il cittadino romano fin dall’infanzia era educato militarmente; studiava arte militare e trascorreva 10 anni di formazione negli accampamenti e sui campi di battaglia. Si diventava valorosi per causa di forza maggiore. Non era concepibile, infatti, la vigliaccheria, che era crudelmente punita con la fustigazione fino alla morte del colpevole. Il comandante poteva far decapitare un soldato che era fuggito davanti al nemico, mentre al disertore era tagliata la mano destra. Con questi presupposti la sconfitta era molto difficile, quasi una possibilità remota.
A tutto questo si affiancava il duro addestramento e l’abitudine al sacrificio, che portava il soldato romano a lunghe marce, trasportando il proprio bagaglio e la propria armatura (oltre 30 kg totali). Alla sera era lo stesso soldato che piantava la tenda e innalzava la palizzata. Quando non c’erano battaglie o guerre, i soldati provvedevano a costruire strade, ponti e opere urbane. E non crediamo che al soldato spettasse una razione viveri luculliana.
La sua alimentazione era semplice: pane o polenta, verdura, vino agro, raramente carne. A tal punto ci si abituava che i soldati di Giulio Cesare si lamentavano quando erano costretti a mangiare carne. Non ricevettero paghe fino al 405 a.C.; dopo queste furono molto modeste, ma erano integrate con una parte di bottino che spettava a tutti, in relazione al grado sociale: verghe d'oro o d'argento, denaro, terre, uomini, beni mobili.
Il fatto che fu proprio nel 405 a.C. ad essere introdotta la paga per il soldato ed il diritto ad una parte di bottino in relazione al suo grado ci porta a capire anche meglio perché Roma alla lunga risultava vincitrice. Fu durante la guerra con Veio che Roma sperimentò nuove strategie belliche, che erano già in uso presso i Greci, ma sconosciute dai popoli italici. Fino a quel momento le guerre sulla penisola italica erano piccole scaramucce, se non liti in grande stile tra vicini. Esse si combattevano per lo più durante la bella stagione; con l’approssimarsi dell’inverno le ostilità erano sospese ed i soldati tornavano a casa… Probabilmente si riprendeva nella primavera successiva o anche più in là; in Italia, infatti, erano sconosciute le tecniche d’assedio, come quella sperimentata dai Greci a Troia. Per questo motivo era potuto succedere che Veio e Roma, distanti tra loro circa 20 km, erano state in guerra per quasi cento anni ... per rimanere in un periodo ben conosciuto.
Quando nel 406 a.C. iniziò quella che doveva essere l’ultima guerra tra Veio e Roma, era chiaro ad entrambi i contendenti che la posta in gioco era molto alta: la supremazia sul Lazio. Nel racconto dello storico Tito Livio traspare proprio l’idea che la guerra sarebbe finita solo con la distruzione di una delle due rivali, cosa che infatti avvenne. Orbene, una guerra condotta come nel passato non sarebbe servita ai romani per raggiungere lo scopo: era inutile assediare una città ben fortificata solo per qualche mese e poi lasciare il campo delle operazioni con l’inizio della brutta stagione, consentendo all’avversario di curarsi le ferite.
I romani, allora, cambiarono sistema: cinsero d’assedio Veio, cosa che non era mai successo nel passato e che sorprese proprio gli abitanti dell’Urbe, non abituati a mantenere i propri uomini fuori della città per tanto tempo. Per la cronaca, quella guerra durò dieci anni, fino al 396 a.C.. L’assedio di una città comportava grossi problemi. I soldati erano anche cittadini comuni, soprattutto contadini, e combattendo durante guerre e battaglie lasciavano le proprie occupazioni, per farvi ritorno a operazioni concluse. Per i ricchi non c’erano problemi, avendo schiavi e servi che restavano a curare i loro interessi, ma per i più poveri e per i coltivatori diretti della propria terra, una guerra era una tragedia tanto più grave quanto più era lunga. Al ritorno a casa, trovano il loro campicello incolto e le famiglie oberati di debiti contratti per sopravvivere. Per questo era impossibile pensare ad un assedio come le circostanze richiedevano: i soldati nonostante tutto non avrebbero potuto. Allora Marco Furio Camillo, che conduceva quella guerra e che poi distrusse Veio, istituì una paga per i soldati. Ecco due esempi di adattamento alle circostanze per raggiungere il proprio scopo. Oltre alla paga, come abbiamo detto prima, il militare riceveva anche parte del bottino; questa prassi esisteva in tutti gli eserciti. Ovviamente tutti volevano partecipare al saccheggio e conquistarsi la maggiore preda possibile; nessuno voleva rinunciarvi. Avveniva a volte che il nemico organizzava una controffensiva che, dopo aver respinto gli assalitori, giungeva a conquistare addirittura l’accampamento dell’avversario. E così tante battaglie praticamente vinte, si risolvevano in una sconfitta.
Per ovviare a questo, non tutti i soldati romani partecipavano al saccheggio, ma c’erano sempre soldati a difesa dell’accampamento. Tutto il bottino, poi, era portato al comandante che provvedeva a distribuirlo in tre parti: quella spettante all’erario, quella da offrire agli dei e quella da dividere tra i soldati. Tutti, nella misura prestabilita, partecipavano alla divisione, anche i feriti, le truppe di riserve e quelle rimaste di guardia all’accampamento. Di conseguenza non c’era invidia tra i militari, l’accampamento era sempre difeso e spesso da esso uscivano le truppe fresche necessarie per rintuzzare eventuali contrattacchi nemici. Come si può vedere si tratta di principi semplici, ma che erano solo i romani ad applicarli.
La riforma centuriata
Il primo che si interessò all’esercito in un’ottica più moderna, secondo la tradizione, fu Servio Tullio ritenuto autore della famosa Riforma Centuriata. Gli storici ritengono che essa appartenga al primo periodo repubblicano, ma non è un problema che ci interessa in questa sede. Con questa riforma ricchezza, peso politico e servizio militare erano strettamente collegati; tutti i cittadini, infatti, in base al censo, furono divisi in sei classi ognuna delle quali avrebbe dovuto fornire centurie secondo il seguente schema:
Patrimonio - Centurie
Oltre 100.000 assi - 18 di cavalleria - 80 di fanteria
100.000-75.000 assi - 20 di fanteria
75.000-50.000 assi - 20 di fanteria
50.000-25.000 assi - 20 di truppe ausiliarie leggere
25.000-11.000 assi - 30 di soldati dotati di armamento leggero
Proletari o nullatenenti - 5 ausiliarie (falegnami, fabbri, suonatori di corno o di tuba)
Il compito della difesa del territorio fu sempre sentito come un dovere specifico di tutta la collettività, e per questo motivo l’esercito in età repubblicana fu l’espressione della società nel suo complesso; nelle legioni militavano solo gli uomini liberi che avevano la cittadinanza e i doveri militari e i diritti politici erano strettamente collegati. Infatti, le centurie assunsero anche la funzione di unità elettorali, con il compito di prendere le decisioni di carattere politico più importanti.
Le assemblee dei componenti delle centurie si chiamavano comizi centuriati, e ogni centuria aveva diritto a un voto. Siccome la prima classe forniva 98 centurie e aveva a disposizione altrettanti voti, si trovava sempre in situazione di maggioranza rispetto alle altre in caso di voto compatto, avendo queste a disposizione solo 95 voti. I comizi centuriati rivestivano grande importanza: eleggevano le magistrature ordinarie più alte (consoli, pretori, censori), dichiaravano lo stato di guerra e concludevano la pace su proposta del senato e fino al 287 a.C. ebbero il compito di approvare in maniera definitiva le leggi.
Tale situazione cambiò in epoca imperiale: l’estensione dei confini impose la presenza di un esercito permanente e perciò la leva si basò sulla coscrizione volontaria. Si arrivò così alla formazione di un esercito professionale, necessario perché la sopravvivenza dell’impero non poteva essere salvaguardata da truppe occasionali.
La guerra
Per i romani, ma in genere per tutti gli antichi, ogni cosa avveniva solo se voluta dagli dei; erano essi a decidere la vita e la morte, la salute e la malattia, a determinare una vittoria o una sconfitta. Per questo, prima di iniziare una qualsiasi attività era necessario consultarli, chiederne i favori, placarli, imbonirli. Esistevano giorni fausti nei quali tutto poteva essere fatto, e giorni nefasti dove alcune azioni erano vietate, esistevano procedure e rituali da rispettare.
Era molto raro che capitassero episodi come quello che ci racconta lo storico Tito Livio avvenuto durante una guerra contro gli Equi (v sec. a.C.): «Il console Valerio, che aveva marciato col suo esercito contro gli Equi, non riuscendo a provocare il nemico a battaglia, s’accinse ad assalirne l’accampamento. Glielo impedì una spaventosa tempesta che si rovesciò dal cielo con grandine e tuoni. Il suo stupore crebbe poi quando, dato il segnale della ritirata, il tempo ritornò così calmo e sereno che, come se il campo fosse difeso da qualche divinità, gli parve un sacrilegio assediarlo di nuovo».
Ma un buon generale non doveva trascurare i segnali inviati dalla divinità e quindi già prima di iniziare una guerra doveva essere “a posto con gli dei”. Non poteva dichiarare una guerra arbitrariamente, ma essere sempre dalla parte della ragione, combattere cioè una guerra giusta.
Il bellum iustum
Il buon esito della guerra dipendeva certamente dalle scelte strategiche dei generali e dal grado di addestramento dell’esercito, ma in primo luogo per i Romani vi era una condizione di grandissima importanza: la risposta militare era valida solo se traeva forza dal rispetto del bellum iustum (di una guerra legittima), da una condizione di necessità che giustificasse il ricorso alle armi. La guerra era accettata all’interno di una concezione sacrale del potere. Da questa premessa religiosa derivava la necessità di compiere alcuni riti indispensabili per accertarsi della protezione divina.
Secondo la mentalità degli antichi, la prosperità di una città dipendeva dalla benevolenza degli dei; una cerimonia consisteva perciò nell’evocatio, cioè nell’evocazione degli dei perché uscissero dalla città dei nemici. Il generale romano pronunciava alcune formule di rito, sacrificava un animale per esaminarne le viscere e cogliere i segni della divinità al fine di capire se l’invito era stato accolto.
Per avere conferma della legittimità della guerra, già in epoca monarchica i Romani avevano istituito il collegio sacerdotale dei feziali; questi sacerdoti, dopo essersi accertati che Roma avesse ricevuto un’offesa, si recavano dal popolo nemico e dicevano solennemente: «Noi siamo gli inviati ufficiali del popolo romano, ambasciatori secondo il diritto umano e divino»; quindi ponevano le condizioni per riparare l’offesa.
Gli stessi sacerdoti avevano il compito di ratificare il trattato di pace (stipulato nei particolari dall’autorità politica), pronunciando una formula di exsecratio, cioè di maledizione, che avrebbe dovuto attirare la punizione divina su chi non avesse rispettato i patti. Se l’offesa non era riparata o se Roma non si sentisse soddisfatta dall’offerta del nemico, allora la parola passava alle armi ed entravano in ballo gli invincibili legionari. … e passiamo ora ad esaminare lo strumento della potenza:
La legione
L’unità tattica fondamentale dell’esercito romano era la legione. Nella storia primitiva dell'organizzazione militare romana, indicava la "leva"; passò poi a significare l'esercito romano nel suo insieme, e infine l'unità organica fondamentale dello stesso esercito. Il reclutamento nella legione in linea di principio era fatto solo con cittadini. Le notizie sulla struttura della primitiva legione sono molto incerte. Si può ritenere che nel primordiale stato gentilizio la legione contasse 3000 fanti e 300 cavalieri, reclutati nelle tre tribù genetiche dei Tities, Ramnes e Luceres in ragione di mille fanti (da cui milites) e cento cavalieri per ognuna. Salì poi a 4200 all’epoca di Polibio, a 6200 al tempo di Mario, per stabilizzarsi infine sui 4-5000.
Il numero delle legioni, salito a 45 nelle guerre civili, fu ridotto a 25 da Augusto per fissarsi successivamente intorno a 30, con effettivi di 5000 militari per legione e con un totale di circa 150.000 uomini, reclutati ancora tra cittadini, ma con graduale immissione anche di provinciali volontari che divennero prevalenti verso la fine del sec. II d. C.
Le principali unità tattiche della legione erano:
La coorte (cohors): Con la riforma di Mario la legione fu divisa in dieci coorti di 600 uomini ciascuna e fu unificato l’armamento dei tre reparti iniziali Le coorti si vennero distinguendo in coorti legionarie, comandate da tribuni, e coorti ausiliarie comandate da prefetti, queste ultime formate con elementi reclutati nelle province. Facevano parte a sé le cohortes civium romanorum, costituite da cittadini romani del territorio italico. Le coorti prendevano talvolta nome particolare o dall'imperatore che le aveva create, o dalle armi speciali, o dalla nazionalità dei soldati, o da particolari caratteristiche.
Cohortes expeditae: senza salmerie, erano preposte ad azioni rapide;
Cohortes subsidiariae: erano truppe di riserva.
Esistevano altre coorti che non facevano parte delle legioni, ma le citiamo solo per curiosità.
Cohortes pretorianae: adibite a guardia del corpo dell'imperatore;
Cohortes urbanae: adibite a guarnigione di Roma;
Cohortes vigilum: avevano compiti di polizia urbana e antincendio.
Il manipolo (manipulus):era composto da due centurie i cui effettivi variavano da 60 a 120 uomini. In battaglia il manipolo si disponeva su dieci file, distanti fra loro circa due metri. La decuria: nel più antico esercito romano costituiva la decima parte della centuria, formata da un raggruppamento di dieci soldati o cavalieri.
La centuria: era l’originaria unità tattica della legione, così chiamata perché inizialmente di cento uomini. La sua composizione variò poi dai 50 ai 100 uomini.
Fino a Mario la legione era suddivisa in 30 manipoli, unità tattiche formate da due centurie. Una centuria poteva comprendere da 50 a 100 uomini. In prima linea erano schierati 10 manipoli di hastati, soldati giovani, dietro di loro stavano 10 manipoli di principes, soldati di maggiore esperienza, sulla terza fila erano schierati i triarii, soldati più anziani di provata esperienza. Inoltre c’erano circa 1200 velites, la fanteria leggera (formata da arcieri, sagittarii e frombolieri, funditores) e 300 cavalieri.
Durante una battaglia, dopo le azioni di disturbo da parte dei velites, avanzavano gli hastati; se la pressione del nemico diventava troppo forte questi indietreggiavano formando una nuova fila più compatta con i principes. In caso estremo entravano in azione anche gli esperti triarii. Mario riformò la struttura della legione, suddividendola in dieci coorti formate da tre manipoli, sempre suddivisi in due centurie ciascuno.
Non mancava la squadra del genio militare, una delle armi migliori dell’esercito romano, capace di affrontare lavori di alta specializzazione, come costruire ponti, navi per trasporti oceanici, strade. I Romani ebbero fabri lignarii (falegnami), aerarii (fabbri), fossores (zappatori) e, dall'epoca dell'impero, anche reparti di pontieri.
Il comando supremo della legione era affidato al console, il quale era coadiuvato da un legatus (che svolgeva le funzioni di sostituto o di principale collaboratore) dai tribuni militum (a capo delle coorti) e dal praefectus fabrum, il capo degli artigiani (ovvero il reparto del genio militare). Gli Ufficiali inferiori erano: i centurioni, a capo delle centurie; i decurioni, a capo delle decurie ;il praefectus equitum, comandante della cavalleria. L’insegna della legione era un’aquila d’argento ad ali spiegate infissa su una lunga asta. Il soldato che reggeva l’aquila era chiamato aquilifer. L’addetto al vessillo dell’aquila della legione era un ufficiale scelto appositamente per la sua fermezza e la sua in campo di battaglia. Faceva parte della centuria del primipilo, ossia il centurione più anziano e più elevato di rango della prima delle dieci coorti in cui era divisa la legione. L’aquila andava difesa ad ogni costo e la sua perdita era il più gran disonore che potesse capitare alle legioni; il legionario preferiva la morte che rendersi colpevole di questa vergogna. A tal proposito possiamo ricordare la rovinosa sconfitta subita da Varo nel 9 d.C. contro i Germani di Arminio. Questi avendo anche conquistato quattro insegne, le nascose, sapendo quanto fossero importanti per il nemico. Non le restituì mai mentre i Romani per loro conto non ebbero pace fino a quando non rientrarono in possesso delle loro aquile: l’ultima fu ripresa ai Germani che l’avevano sottratta dall’imperatore Claudio.
Le armi
Il legionario usava come armi offensive una spada corta e larga, il gladius, e due tipi di arma da getto, il pilum (giavellotto) e l’hasta (asta). Per proteggersi usava un elmo (galea) e uno scudo che poteva essere oblungo e di cuoio (scutum) oppure rotondo e di metallo (clipeus). Avevano inoltre schinieri e corazza in bronzo (ocreae, lorica ex aere). I velites avevano un armamento leggero; gli arcieri avevano un arco, mentre i frombolieri usavano fionde e proiettili di pietra (fundae, lapides missiles).
I Romani utilizzarono anche varie macchine da guerra. La balista era simile a una balestra che scagliava a distanza pietre, grossi dardi e materiale incendiario; l’ariete era una robusta trave con la testa di bronzo o di ferro che era fatta battere contro porte e muraglie di opere fortificate per aprire brecce, demolire e sfondare; la torre, un’armatura in legno che agevolava la scalata delle mura; la testuggine era una tettoia mobile a protezione degli assalitori nell’accostamento alle mura; la catapulta era costituita da un meccanismo di carica elastico (cordami ritorti e balestre) e da un braccio munito di cucchiaio atto a contenere il proiettile, costituito da grosse pietre, dardi, frecce, bombe incendiarie ed era usata come arma da assedio, campale o montata su navi.
La marina
I Romani furono dominatori anche sui mari, ma le imprese marittime sono poco conosciute, eccetto forse quelle della prima guerra punica e la repressione della pirateria. In ogni modo la marina di Roma rese tranquilla la navigazione in tutto il Mediterraneo. Vediamo brevemente anche questo strumento di guerra.
La nave da guerra romana a remi era sostanzialmente uguale a quella delle altre marine. Dovendo installare a bordo i banchi per i rematori, aveva poco spazio per imbarcare armi offensive e soldati. Le armi offensive di cui era dotata consistevano in armi da getto (catapulte, dardi incendiari, fionde), arieti e quanto poteva servire a danneggiare la nave avversaria prima di venire in contatto con essa. L'arma più pericolosa era comunque il rostro, che aveva lo scopo di sfondare la carena avversarie e provocarne l'affondamento.
Quando la flotta romana veniva in contatto con quella avversaria subito si cercava di agganciare l'avversario con rostri e grappini, in modo da consentire il trasbordo dei soldati sulla nave nemica. E bisogna ricordare che spesso l’esito della battaglia navale era deciso dallo scontro delle fanterie imbarcate.
I primi esempi di battaglie navali vinte in pratica dalla fanteria imbarcata si ebbero durante la prima guerra punica, dove i romani, potenza essenzialmente terrestre, riuscì a sconfiggere i Cartaginesi, potenza essenzialmente marinara, grazie all’invenzione dei famosi “corvi”, con i quali agganciavano le navi avversarie immobilizzandole e tenendole unite alle proprie grazie ad una passerella sulla quale passavano i fanti, trasformando in pratica la battaglia navale in battaglia terrestre.
L’ovatio e il trionfo
Quando la guerra aveva termine al comandante vittorioso erano tributati grandi onori che potevano consistere nel trionfo o nell’ovazione.
Il trionfo era decretato dal Senato ed era tributato al generale che otteneva una vittoria decisiva. Esso consisteva in un solenne corteo che attraversava la città dalla porta trionfale e, percorsa la Via Sacra, saliva al Campidoglio: andavano innanzi i prigionieri, i carichi del bottino di guerra, i senatori. Il generale vittorioso, imperator, attorniato dai suoi ufficiali, seguiva su un carro tirato da quattro cavalli bianchi, rivestito di una toga di porpora (toga picta), il volto dipinto di rosso minio, una corona d'alloro dorato sul capo e con lo scettro; uno schiavo accanto gli rammentava di essere solo uomo (hominem te memento); veniva dietro l'esercito in assetto di guerra. I militari durante la sfilata lanciavano lazzi e frizzi, a volte anche molto volgari, all’indirizzo del loro generale e da questa tradizione non andò esente neppure il grande Giulio Cesare.
Sul Campidoglio il trionfatore deponeva sulle ginocchia della statua di Giove una corona ed offriva in sacrificio un toro. Dopo il sacrificio egli offriva un banchetto ai senatori e agli ufficiali mentre al popolo erano distribuiti viveri. I prigionieri finivano sgozzati nel Carcere Mamertino. A titolo di ricompensa, i soldati partecipanti al trionfo ricevevano una gratifica chiamata donativo.
L’importanza attribuita al trionfo è testimoniata dai Fasti Triumphales, cioè la lista dei comandanti che avevano ottenuto l'onore del trionfo, che andava ad aggiungersi alla lista dei fasti consolari, cioè la lista dei consoli succedutisi nel tempo. Nella storia di Roma si contano circa 350 trionfi.
Con l'avvento dell'impero il trionfo spettò solo all'imperatore.
Se l’impresa non era meritevole del trionfo (ad esempio una vittoria contro nemici poco agguerriti o la repressione di una sommossa), al generale era tributata l’ovatio. Questa era un trionfo minore in cui il duce vittorioso aveva l’onore della corona di mirto e sacrificava una pecora in Campidoglio, dove si recava a piedi o a cavallo.
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