MAO 3 - La storia
Da Pklab.
IL LIBRETTO GRIGIO
DEI
PENSIERI DEL M.A.O.
TRE
Finito di stampare
clandestinamente
nell’anno XXVI dell’era del M.A.O.
Dedicato a me
cui nessuno dedica mai niente
(Anonimo Olevanese)
Premessa
Per il lettore
Con orecchie distratte ascoltavo quei ragazzini che discutevano animatamente, con una foga indescrivibile, quasi fossero i soliti parlamentari italiani, onorevoli molto poco onorevoli, in disaccordo su tutto, eccetto che sul loro aumento di stipendio … Di cosa parlavano - mi chiedevo - per essere così infervorati, quasi da loro dipendessero i destini della loro via, della loro città, del nostro pianeta o, addirittura, dell’Universo? Forse di sport? Di musica? Di politica? Di sesso? Di religione?
Niente di tutto questo.
Quale era l’argomento della loro discussione, dunque?
Curioso, tesi l’orecchio per sentire meglio quello che dicevano … con immensa gioia, mi accorsi che stavano disquisendo nientepopodimeno che sul fantastico, glorioso, mitico M.A.O. … il mio vecchio cuore anarchico ebbe un sussulto. Ero quasi commosso nell’apprendere che persone così giovani erano ancora interessate al vecchio movimento che per molto tempo (storici, anche di parte avversa, parlano addirittura di qualche giorno – NdA) aveva infiammato gli animi di quel manipolo di eroi, gatti selvatici senza padroni, sciolti da ogni vincolo di sudditanza e di servitù.
Cercai, allora, di prestare maggiore attenzione alle loro parole perché l’argomento per me era davvero interessante, degno di essere seguito … che delusione!
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IL MAO
Per uno di loro (forse il viveur della comitiva?) il M.A.O. era la sigla dei “Mitici Anni Ottanta”; per un altro (evidentemente pio e timorato di Dio) M.A.O. era senza dubbio l’acronimo di “Madonna Aiutaci Ora”. Nessuno dei due, però, riusciva a persuadere il progressista del gruppo, per il quale M.A.O. significava inequivocabilmente “Meglio Andare Oltre”; per il solito ritardato mentale, convinto di sapere tutto di tutto, M.A.O., invece, era addirittura il nome di battesimo di un leader asiatico di antica memoria. Che dire? Che pensare? Che fare?
Ero costernato … possibile che, ancora prima che una generazione fosse passata, il glorioso M.A.O. e tutti gli eroici Tusciani erano stati completamente cancellati dalla mente di tutti? Così poco tempo era bastato, dunque, per confinare nel dimenticatoio chi aveva combattuto una guerra cruenta che poteva cambiare le sorti di una borgata, anzi di un comune, magari di una provincia, probabilmente di una nazione, forse di un continente o addirittura del mondo?
Era davvero strano!
Mi tornavano alla mente le antiche profezie che avevo letto sui sacri libri, in qualità di aspirante Pontefice Massimo, durante la mia giovinezza: avevano avuto ragione gli antichi aruspici che un giorno avevano stabilito la durata della vita del MAO paragonandola a quella delle farfalle che vivono un solo giorno. Davvero come una farfalla era stato il MAO … ed il MAO era solo il Tuscio.
Ora esso non esisteva più e, per altro, di esso non sopravviveva alcun ricordo …. Quale dio crudele aveva voluto far calare l’oblio sui gloriosi Tusci? Chi aveva fatto tabula rasa di una fetta così importante di Storia? E che fine aveva fatto il vecchio, indomito Tuscio, autore di tante piccole, insignificanti battaglie e che le vicende di ogni giorno avevano visto sempre irrimediabilmente sconfitto dai nemici e dalla vita, straniero in ogni patria, perennemente in fuga, quasi come un lemming solitario? Chi si era accanito tanto contro di lui fino al punto da volerne cancellare addirittura la memoria?
Domande destinate, purtroppo, a rimanere senza risposta!
IL TUSCIO
E del Tuscio, infatti, purtroppo, ora si sa quasi niente … non le sue origini, non il suo nome di battesimo, non i suoi studi e la sua religione … Tre paesi sono accusati (e a loro volta si rinfacciano) di avergli dato i natali e di essere stati la culla del Mao. Da studi effettuati con certosino impegno, anche da autori di parte avversa, risulta che uno di essi si trova nel Nord, il secondo nel Centro ed il terzo nel Sud dell’Italia, quasi a voler dare al Tuscio e al suo movimento un carattere ecumenico. Essi, oltre che omonimi, sotto certi aspetti sono pure somiglianti: piccoli e ameni, ricchi di storia ed immersi nella natura, tutti e tre sono meritevoli di essere conosciuti e visitati. Essendo molto distanti tra loro, è facile per ciascuno di essi dare la colpa agli altri due che, ovviamente, la rispediscono al mittente. Nessuno, logicamente, si vuol prendere la colpa di aver allevato quella specie di gatto selvatico, fastidioso più di un tafano, e tutti assicurano, in ogni caso, di avergli decretato, a priori e sulla sfiducia, un ostracismo perpetuo.
Qualcuno avanza addirittura l’ipotesi che egli fosse proprio quel Vaguus Tuscus di cui parlavano le varie leggende dell’epoca … la teoria, pur se non accettata dalla storiografia ufficiale, è sicuramente molto suggestiva e meritevole di essere tenuta in considerazione.
In ogni modo, per passare ad altro, dalle lunghe indagini e dagli studi compiuti finora, anche da specialisti imparziali, è emerso che di sicuro il Tuscio aveva la vocazione del missionario. A dimostrazione di questo, c’è la considerazione che, come noto a tutti, si era circondato dei più grandi riformatori religiosi dell’epoca (come risaputo, Giuliano l’apostolo e Iscariota Giuda, solo per fare qualche nome, erano tra i massimi esponenti del MAO - NdA) ed aveva sostenuto con il massimo impegno la loro opera. Egli, fra l’altro, partecipava personalmente a tutte le funzioni religiose che Giuliano aveva istituito o ripristinato per il suo popolo. In una di queste, nella quale si portava in processione una croce, il Tuscio cantava gli inni sacri. La croce era normalmente portata da un altrimenti sconosciuto adepto che si chiamava Simone l’Acernese. Cronisti di parte avversa, in verità, parlano di un certo Simone “il Cireneo”. Io credo, però, che si debba accettare, non fosse altro per ragioni geografiche, la dizione “Acernese” (abitante di Acerno) e non “Cireneo” (abitante di Cirene – dove cacchio si trova questa Cirene?) e, pertanto, è da rifiutare con decisione la tesi di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, tardi cronisti dell’epoca, per altri versi, in verità, molto credibili e ben informati, che riportano per primi la dizione “Cireneo”.
Dunque “Acernese” e non “Cireneo”, come peraltro confermato sia da Totonno ‘o gnurante sia da Runato ‘o ciuccione.
Purtroppo, per ritornare alla nostra storia, l’Acernese si rese colpevole di un vero e proprio sacrilegio … durante una di queste processioni, trovandosi vicino ad un campo di fragole, lasciò la croce per terra, tra le felci, e se ne andò a raccogliere fragole.
Da qui sicuramente deriva il famoso detto olevanese: “lassa ‘a Cristo e jàmme ‘a fràul” (“lascia Cristo e andiamo a raccogliere fragole” – traduzione non autorizzata dell’autore). In verità questa sembra sia proprio la frase che fu pronunciata da Simone l’Acernese nell’atto di compiere il suo gesto sacrilego.
Il Tuscio, uomo pio e timorato di Dio, esperto di pratiche religiose per averle lungamente studiate nella sua giovinezza, in qualità di aspirante aruspice e Pontefice Massimo e, soprattutto, perché discendente del glorioso popolo etrusco che in tale arte eccelse tra tutti, non volle lasciare la funzione interrotta e iniziò a cercare la croce tra le felci. Da qui, credo, deriva l’altro memorabile detto olevanese “cercàmme ‘a Ccrìst’ ‘nmièzze ‘e fìlici” (“cerchiamo Cristo in mezzo alle felci” – traduzione dell’autore non autorizzata dagli esegeti e critici del MAO). Da testimoni dell’epoca si è saputo che questa è stata proprio la frase pronunciata dal Tuscio, quando si accorse dell’empietà dell’Acernese.
Una volta trovatola, il Tuscio abbracciò la sua croce, se la mise addosso e continuò imperturbabile la processione: in pratica gli toccò, come in tantissime altre situazioni, “cantare e portare la croce”.
Nei vari spostamenti gli arredi ed i paramenti usati per le cerimonie sacre e per le processioni erano portati per mezzo di una vecchia carretta. Avveniva che, non possedendo neppure un asinello da utilizzare per il traino, era proprio il Tuscio a tirare la carretta degli arredi sacri. Questo era il suo destino: cantare e portare la croce e, soprattutto, tirare sempre la carretta! … e da solo!
Nella sua opera di redenzione del mondo, in ogni modo, era infaticabile. Fu un fustigatore dei costumi, un vero Marcio Porcio Catone il Censore in chiave moderna. In effetti gli stessi cronisti dell’epoca, anche di parte avversa, concordavano sul fatto che fra i tanti Marci e i tanti Porci che c’erano nel Paese, un Catone era davvero necessario. Si narra, a tal proposito, che un giorno aveva messo gli occhi addosso ad una peccatrice, una ragazza non proprio casta, anzi un po’ zoccola, o meglio una grande zoccola, in pratica una vera zoccolona. Ovviamente il Tuscio aveva l’unico e chiaro proposito di redimerla. Un suo fedele amico, che non aveva inteso il vero scopo delle sue azioni, gli fece:
- Tuscio, lascia stare quella troietta. È una puttanella, una specie di ninfomane che praticamente la sta dando a tutti”.
- Lo so! Lo so bene! Ed è per questo che le sto dietro! È per questo che mi dedico a lei! – rispose quell’anima candida del Tuscio.
Che bontà di uomo! Quanta generosità! Quali nobili sentimenti albergavano nel suo animo … Sennonché, inopinatamente, qualche giorno prima che il Tuscio riuscisse a parlarle, la ragazza si convertì e decise di non darla più a nessuno. Questa rapida ed inaspettata conversione turbò il Tuscio, che rimase decisamente confuso.
Iniziò, così, uno dei periodi più oscuri della sua vita, quello che critici ed esegeti unanimemente hanno denominato “Il tempo delle seghe”.
Fu davvero un brutto momento che segnò, forse per sempre, il carattere del Tuscio.
Si narra pure che, dopo questa esperienza, il Tuscio ambisse alla missione di cavaliere errante per affrontare mori infedeli, draghi minacciosi e salvare donzelle prigioniere. Purtroppo per lui, i tempi erano cambiati: i draghi si erano estinti da anni ed egli, pur girando per tutto il paese, non ne trovò manco uno …
Per ovviare al problema (tramandano alcuni storici, anche di parte avversa) un giorno il Tuscio diede una bastonata ad una lucertola che, su un muro, si crogiolava beatamente al sole e le spezzò la coda. Il gesto, peraltro documentato da un fedele cronista dell’epoca, non fu, però, ritenuto valido ai fini del riconoscimento del titolo di cavaliere. L’ingiustizia di cui fu vittima fu ancora maggiore se si considera che, novello don Chisciotte, nonostante avesse spesso combattuto contro i mulini a vento, gli fu sempre negato anche il titolo di “cavaliere errante”.
Il Tuscio, allora, decise di affrontare i mori in una nuova crociata, ma male gliene incolse: tra Charitas, associazioni benemerite, associazioni pro immigrati, organismi, comitati e cazzi vari, l’unico risultato che ottenne fu l’accusa di bieco razzismo. Condannato, scampò alla tortura solo grazie ad un suo amico medico che lo fece dichiarare incapace di intendere e di volere: come cura il Tuscio fu tenuto inchiodato per circa sei settimane davanti alla televisione a vedere “il paese delle fetecchie”, un reality show che allora andava per la maggiore. L’esperienza fu terrificante … il Tuscio ne uscì davvero scosso e per un po’ di tempo si eclissò dal mondo: alcuni studiosi ritengono che si sia ritirato nel Tibet tra i bonzi, ma la notizia non è sicura e non compare nelle cronache ufficiali dell’epoca. Più probabile che si sia ritirato temporaneamente in un convento di clausura o addirittura sopra Monte Sant’Elmo dove pare si sia nutrito di bacche e radici per un lungo periodo ed abbia bevuto acqua piovana insieme agli animali selvatici.
Dopo questa disavventura, in ogni modo, il nostro eroe cercò di liberare qualche fanciulla indifesa rinchiusa in qualche maniero, ma l’avversa opinione dell’Anonima Sequestri gli frustrò anche questo ulteriore tentativo.
Fu così che il Tuscio rimase l’unico cittadino del nostro Paese a non avere il titolo di cavaliere.
Deluso, sembra che si sia arruolato nell’esercito nazionale dove, ad onore del vero, si tramanda che gli riconobbero subito il proprio valore: gli fu affidato, infatti, il prestigioso incarico di issare, all’occorrenza, la bandiera bianca … neanche i cronisti di parte avversa hanno mai potuto negare che nessuno si arrendeva così coraggiosamente come lui. Si narra che in un’occasione si arrese ai suoi nemici che si arrendevano a lui: in pratica si arrese a se stesso. Il fatto è documentato dai più fedeli cronisti dell’epoca ed è accettato da Totonno ‘o gnurante e da Runato ‘o ciuccione. A tale proposito, però, bisogna ricordare che Ciccio la fetecchia (autore conosciuto tra i più prolissi della sua epoca) scrisse ben tre righe per confutare la notizia (NdA).
Si dice anche che ogni qual volta si presentava una missione di assoluta tranquillità, tipo pranzi, rinfreschi e cene di rappresentanza, cocktail e saluti di commiato, ma anche funerali e cerimonie religiose, il Tuscio era il primo dei volontari, anche se la concorrenza era davvero agguerrita e spietata … soprattutto ai pranzi.
E la sua fine? Il Tuscio era apparso improvvisamente e repentinamente sparì. Così, come tutta la sua vita, anche la sua scomparsa rimane avvolta nel mistero. Qualche tempo dopo la sua sparizione, tra la gente si diffusero varie credenze … qualcuno dichiarò di averlo visto camminare sulle acque del Tusciano, soprattutto durante le secche estive; altri affermarono di averlo scorto, eterno giocherellone, mentre saltellava sulle nuvole quando c’era il cielo a pecorelle; qualcuno, poi, giurò di averlo ripetutamente intravisto, dopo i temporali estivi, scivolare dall’arcobaleno ... e poi risalire.
Circolò, soprattutto, una storia che ai più sembrò una leggenda.
Io, invece, ho saputo da fonti degne di fede che proprio questa è da ritenersi la più veritiera. La racconto così come fu narrata a me da chi con il Tuscio era sempre stato in confidenza e che lo seguì sia nella buona sia nella cattiva sorte fino alla fine dei suoi giorni. Si afferma che, a seguito della sua clamorosa quanto inaspettata sconfitta, cui seguì una precipitosa quanto ignominiosa fuga, dopo aver raggiunto la terra dei suoi padri, il Tuscio, anche per sfuggire ai nemici che lo inseguivano per conquistare le spoglie opime, non desiderasse nient’altro che raggiungerli. Pregò a lungo le sue divinità affinché lo esaudissero … e tanto le supplicò e tanto pianse finché gli venne in sogno Larthia, il suo spirito guida, che gli suggerì cosa fare. Fu così che una notte entrò nella necropoli, si coricò in una tomba e si mise in bocca la moneta d’argento per pagare il suo ultimo viaggio. Poi si addormentò. Qui venne Charun per piantargli il chiodo nella fronte e per portarlo negli inferi. Si narra anche che, qualche anno dopo, quando fu scoperto, il suo corpo dimostrava una tale vetustà che gli studiosi, considerandolo antichissimo, ritennero di doverlo conservare in un sarcofago del museo dove è tuttora oggetto di un tardivo quanto doveroso pellegrinaggio.
E questo basta sulla fine del Tuscio.
TATILLO
Su Tatillo (altro grande personaggio del M.A.O.) non è stato scritto abbastanza. Aveva la tempra dell’eroe, il disprezzo del pericolo, dignità e sagacia. Si racconta che, crollato il MAO e con il Tuscio scomparso, abbandonato da tutti, rinchiuso nella Serra, assediato dalle truppe della reazione, Tatillo resisteva valorosamente senza farsi trascinare in avventure inutili e pericolose. Narra il suo biografo ufficiale, Runato ‘o ciuccione, ma la notizia è riportata anche da Totonno ‘o gnurante e da Ciccio ‘a fetecchia, che il suo avversario lo provocava alla battaglia urlando: “Esci fuori se hai il coraggio!”. E Tatillo, con disprezzo, replicò laconicamente: “Vaffanculo!”.
Il motto fece il giro del mondo.
Le vicende di Tatillo, in ogni modo, furono raccolte da un anonimo cronista dell’epoca in un ponderoso tomo dal titolo “De bello Tatilli” che Runato ‘o ciuccione tradusse con il titolo “La guerra di Tatillo”. Di queste storie, Totonno ‘o gnurante fece un epitome dal titolo “Tatilleide”. Di tutto restano, purtroppo, solo scarni frammenti.
La figura di Tatillo è tutta avvolta nel mistero ed incerto è anche il suo nome. Alcuni storici, anche di chiara fama, come “Totonno ‘o gnurante” e “Runato ‘o ciuccione”, ritengono addirittura che il suo vero nome fosse Datillo e non Tatillo. Questi studiosi spiegherebbero la loro teoria sostenendo che Datillo è la forma sincopata di Donatillo, cioè “piccolo donato”, nel senso di “piccolo dono” degli dei ai Tusciani. L’ipotesi, peraltro molto suggestiva, non è da scartare a priori e a cuor leggero, anche perché non è facile ignorare studiosi come ‘o gnurante” e “‘o ciuccione”. Io, però, sono d’accordo con Ciccio ‘a fetecchia e ritengo che il nome vero sia proprio Tatillo, cioè “piccolo padre”. Numerosi fatti supportano questa ipotesi. Prima di tutto bisogna notare che nella frammentaria corrispondenza di guerra sia il Tuscio sia tutti i generali tusciani, quando si rivolgevano al vecchio condottiero, usavano sempre il termine “Tatillo”, ma, a tagliare la testa al toro, c’è la considerazione che, al tempo del nostro eroe, il padre non era chiamato, come oggigiorno, papà o babbo (che era addirittura un termine offensivo nella dizione “mme pare nu babbo” o nel verbo “babbiare” – nota dell’autore) bensì “Tata” da cui il vezzeggiativo “Tatillo”.
… e con questo si è detto tutto quello che si sa su Tatillo.
ZI' SETTE
E, visto che ci siamo, mi sembra doveroso parlare di Zì Sette, poeta. Egli, personaggio umbratile e pensoso, visse sempre ai confini di una realtà che stentava ad accettare ed una che non esisteva. Poeta originale e versatile, zì Sette, per la simpatia mostrata verso il MAO, subì l’ostracismo dei biografi di parte avversa che gli negarono sempre la qualifica di vate. Purtroppo quello che doveva chiarire ogni dubbio, il suo biglietto da visita vergato di suo pugno e quindi oltremodo veritiero, fu l’arma che gli avversari usarono per screditarlo. Resta il fatto che un poeta, meritevole di dare del tu ai grandi del passato del calibro di Gioacchino Belli, Salvatore Di Giacomo e Pier Paolo Parzanese, non ebbe mai il successo che gli spettava e che indubbiamente meritava. La sua vasta produzione è purtroppo andata irrimediabilmente perduta e delle sue opere non rimangono che qualche titolo e pochi frammenti, mentre si sono conservate opere tarde e rifacimenti posteriori. Tra i titoli abbiamo “La passera solitaria”, dedicata ad un’amica che si era fatta suora di clausura, e “A Ida”, dedicata alla sorella. Entrambe, poi, furono imitate con i titoli “Il passero solitario” e “A Silvia” e diedero successo e fama ad un altrimenti ignoto poeta italiano di nome Giacomo. L’A I D A fu anche utilizzata da un oscuro musicista per una sua opera che poi gli diede molta fama.
Vita non facile pure quella del nostro poeta e piena di vicissitudini. Avvenne anche che, dal momento che il suo editore, di nome Carmine, ora con una scusa ora con l’altra, gli negava la giusta mercede (“Carmina non dant panem”, ripeteva spesso e con amarezza il nostro Vate), in età avanzata il nostro zì Sette si diede ad attività più pratiche e lucrative: fu collaudatore di materassi, ingegnere urbanistico ed allevatore di bestiame. Queste sue esperienze si sarebbero rivelate utilissime dopo il sisma che sconvolse la terra dei tusciani, ma si tratta di notizie fin troppo note per essere ancora riportate nelle cronache moderne. In ogni modo, per chi ancora non lo sapesse, egli propose di abbattere tutte le case (già vecchie per l’età ed ora ancora più pericolanti per gli effetti del sisma) e, con i sussidi dello Stato, ricostruirle nuove, con criteri moderni, addirittura spostandole in un posto più spazioso e meglio raggiungibile dai mezzi moderni di locomozione. Dai suoi calcoli risultava che ognuno avrebbe avuto una casa più grande e più confortevole di quella già posseduta (riteneva fattibile per tutti una villetta mono-familiare di circa 200 mq, con giardino, orticello, cantina e garage, - NdA), mentre il Governo avrebbe risparmiato addirittura sui finanziamenti. Lo Stato avrebbe avuto, sosteneva zì Sette, il duplice vantaggio di migliorare la vita dei suoi cittadini e, avendo le nuove case più valore, di recuperare con le tasse ciò che aveva elargito per solidarietà umana: in pratica per la Nazione sarebbe stato solo un utile investimento. La proposta, che zì Sette avrebbe voluto portare all’attenzione del Commissario Straordinario per il terremoto, proprio perché semplice, fu ritenuta pazzesca e non accettata. Ed è così che, dopo vari lustri trascorsi e tanti miliardi sprecati e, soprattutto, spariti nelle capaci tasche dei soliti politici, faccendieri, traffichini (per non dire altro) molte case sono ancora diroccate ed i loro proprietari hanno raggiunto il mondo dei più.
Fu anche questo, si dice, che spinse zì Sette verso il Mao.
CULTURA DEL MAO
Si tramanda pure che, durante la reggenza di Tatillo, quando del Tuscio si erano perse le tracce ed il MAO era stato sconfitto dalla Storia e dalla reazione, zì Sette fu chiamato ad assumere l’importante dicastero della Cultura e dell’Informazione. Memore dell’antico precetto della celeberrima “Scuola Medica Salernitana” che vuole “mens sana in corpore sano”, zì Sette capì subito che la gente doveva dedicarsi molto allo sport. Per questo motivo fondò un giornale sportivo che ebbe il titolo di “La calzetta dello sport”; il successo fu immediato al punto che il quotidiano varcò i confini tusciani e raggiunse terre lontane come Napoli (dove era chiamato “’A cazètta rò sport”) e Milano (dove ebbe il nome di “La Gazzetta dello Sport”) … il nome originale, però, è la “Calzetta della Sport”, come confermano studiosi e storici anche di parte avversa.
Fu grazie a lui, inoltre, che il MAO ebbe un proprio giornale. Il problema che si presentò al proposito fu la periodicità. Scartata l’idea di un quotidiano, il Tuscio avrebbe voluto almeno un settimanale, ma la scarsità di risorse, soprattutto economiche, lo costrinsero a più miti pretese. Si pensò prima ad un mensile e poi ad un trimestrale. Alla fine si giunse alla conclusione di stampare un decennale; purtroppo il primo numero, che avrebbe dovuto avere la tiratura di almeno dieci copie, non vide mai la luce perché il MAO fu sciolto molto prima.
LA PROPAGANDA NEL MAO
Le capacità di zì Sette erano innegabili e solo la sua presenza (o almeno il suo appoggio) ci chiarisce molti misteri del MAO. Come mai, ci si è spesso chiesto, in pochissimo tempo il Tuscio riuscì a mettere in piedi un movimento che sembrava dovesse andare al potere con le buone o con le cattive? Chi era l’eminenza grigia che programmava le mosse del Tuscio? Se, indubbiamente, le vittorie militari furono possibili perché a dirigere le operazioni belliche c’era il grande Tatillo, alle elezioni il MAO raggiunse il 117% (e solo un cavillo legale gli tolse il potere) soprattutto per merito di zì Sette, al quale il Tuscio aveva affidato il delicato Ministero della Propaganda. Era proprio zì Sette a scrivere i discorsi che il Tuscio teneva nei suoi comizi; sempre zì Sette preparava i manifesti elettorali da affiggere … nessuno ha mai avuto dubbi: zì Sette era la vera testa d’uovo del MAO. Sono stati rinvenuti, al proposito, alcuni slogan preparati da zì Sette al cui confronto, diciamo la verità, il ministro della propaganda nazista Goebbels fa la figura del dilettante, se non proprio del peracottaro. Tra gli slogan e motti più famosi e convincenti troviamo:
- Chi vota ‘o Tuscio campa cient’anni!
- Un voto e un sigaro non si negano mai!
- Vota ‘o Tuscio! Vota ‘o Tuscio! Vota ‘o Tuscio!
- Addavenì o’ Tusciano!
- Per mille secoli e per mille età, evviva il Tuscio e la libertà!
- Chi bbuono vole stà, ‘o Tusciano addà vutà!
- A chi nun vota ‘o Tuscio, ‘nce addà venì na sciaiatica!
…. E via di questo passo. È ovvio che con questa propaganda le elezioni si risolsero in un plebiscito per il M.A.O..
E pure di zì Sette fu il secco discorso con il quale il Tuscio arringò le sue truppe prima dello scontro finale:
“Popolo Tuscio, la Repubblica ci ha portato sull’orlo del baratro. Ora che il M.A.O. è al potere dobbiamo fare tutti un grande passo in avanti”.
… E le truppe tusciane si lanciarono verso la disfatta finale.
Piccolo Anonimo Olevanese piange sui mali del mondo