Emigrazione

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L'EMIGRAZIONE
di
C.F.
Anno 1976


Parlare di emigrazione, specialmente per noi italiani e soprattutto per noi meridionali, significa mettere il classico "dito nella piaga". Certamente questo non è un valido motivo per eludere il problema, ma proprio perché si tratta di una piaga che ci perseguita e ci ammorba da tempo, oggi più che mai, dobbiamo parlarne, discuterne e cercare tutti i modi possibili per cacciare questa bestia, causa ed effetto di squilibri sociali.
Non ho il minimo proposito, con questo breve studio, di risolvere questo tormentoso problema che ci affligge; con un esame abbastanza organico, però, vorrei (se ci riesco) presentare il problema sotto tutti gli aspetti, anche quelli limitrofi, in modo da poter esprimere un giudizio critico e trarre le debite conclusioni. Per poter affrontare meglio il compito che mi sono proposto, vorrei prima dare un rapido accenno all’emigrazione in generale, al suo significato, per poi restringere il tutto fino a parlare della “nostra piaga”, la nostra emigrazione meridionale.
In questi ultimi anni le migrazioni internazionali dei lavoratori hanno raggiunti proporzioni fenomenali; in alcuni paesi i lavoratori stranieri rappresentano una considerevole parte della manodopera e quindi c’è una grande preoccupazione per la difficile integrazione degli immigrati, accresciuta dall’aggravarsi della crisi degli alloggi. Così succede che giovani coppie non trovano case e nello stesso momento i datori di lavoro riescono ad alloggiare i loro dipendenti stranieri, che in verità vivono in condizioni miserevoli e, soprattutto, sentono la lontananza della famiglia. A questo punto mi chiedo: queste difficoltà non si potrebbero evitare? Non potremmo giungere ad un migliore accordo tra bisogni economici e sociali? Non è possibile spostare i complessi industriali là dove c’è spazio e domanda di lavoro, piuttosto che obbligare tante persone a stabilirsi in regioni dove la loro presenza crea un mucchio di problemi. Il disequilibrio economico fra le diverse parti del mondo fa si che innumerevoli persone si trovano davanti ad un’alternativa: o accettare la disoccupazione o affrontare l’emigrazione. Ovviamente ci si presenta questa domanda: quali sono le cause di questa disparità di condizioni? Perché i nostri manuali di economia non spiegano sufficientemente che ogni industria che esiga un disturbo sociale crea una tensione e ne ostacola la produttività? Naturalmente ci troviamo di fronte a forze avverse (atteggiamenti egoistici delle classi privilegiate) che ostacolano lo stabilirsi di questo equilibrio. Ma anche se la situazione non presenta un prossimo miglioramento, essa si avvierà lentamente verso una soluzione. Infatti questa disparità finisce per attirare troppa gente nella stessa regione e procurerà carenza di alloggi, insufficienza di scuole, ospedali, spazio verde ed aria. Questi fattori spingono verso una ridistribuzione dell’attività economica, che viene allora a rifluire verso regioni meno industrializzate. A questo punto mi chiedo: se questa direzione alla fine verrà imboccata, non si potrebbe prenderla a priori, provvedendo subito a piani razionali di produzione? Ora possiamo consolarci con quanto ho detto perché ci assicura una soluzione a lunga scadenza, ma chi non si può consolare sono le persone che attualmente vivono nel disagio di un lavoro all’estero. Forse qualcuno pensa che gli spostamenti delle industrie non possano apportare rapidi rimedi e pensano anche che non sia ancora giunto il momento di portare il lavoro agli uomini, piuttosto che attirare le persone verso il lavoro, ma la cosa su piccola scala è realizzabile. Alcuni progressi possono essere compiuti verso una imparziale distribuzione dell’attività economica per aumentare i posti di lavoro nelle regioni povere. Ma le occasioni favorevoli sono rare. E neppure possiamo proporre come rimedio all’emigrazione la limitazione o la proibizione dell’emigrazione stessa, poiché in questo modo si evitano spiacevoli effetti, ma si privano tanti disoccupati di un impiego e di un reddito. A favore dell’emigrazione, attualmente, c’è da dire che grazie ad essa le zone meno sviluppato traggono non pochi vantaggi. Esse ricavano un afflusso di denaro che migliora notevolmente il livello di vita e si arricchiscono inoltre di nuove conoscenze perché i lavoratori tornano al proprio paese dopo aver acquisito preziose esperienze in campo professionale e nei riguardi delle strutture sociali più evolute. Per tutto questo complesso di ragioni poste in evidenza dagli studi economici e sociali, la legislazione non intende porre un freno alla libertà di movimento dei lavoratori e quindi bisogna concludere, malgrado tutte le difficoltà aderenti allo spostamento in massa dei lavoratori, che non è giusto vietare l’emigrazione. Ma accettando l’emigrazione non dobbiamo accettare i mali che le fanno da corteo. Ed i mali sono tanti che a volte superano la capacità di sopportazione di un individuo.

Table of contents

I MALI DELL’EMIGRAZIONE

L’emigrante viene bruscamente separato da un ambiente sociale in cui è profondamente inserito, in cui è “qualcuno”, un ambiente i cui valori corrispondono al senso che egli possiede della sua personalità, in cui è compreso non solo sul piano dell’espressione verbale, ma sul piano del comportamento esterno e delle relazioni psicologiche più intime. Egli abbandona inoltre il suo ambiente familiare con la sensazione che la sua assenza lo privi di un valido sostegno, mentre lui rimarrà privo delle cure necessarie e abitudinarie. Abbandona i termini di un’esistenza che conosce e comprende per trovarsi in mezzo a persone che non gli convengono e che per di più assumono spesso verso di lui un atteggiamento ostile, motivato da pregiudizi nazionalistici, da oscuri sentimenti di difesa o da timori anche più realistici di vedere aumentare i fitti, il costo della vita e veder abbassare i salari. L’atteggiamento al limite può essere motivato anche da un giudizio negativo (spesso ingiusto) che qualifica colui che emigra tra coloro che sono stati incapaci di inserirsi qualificatamente nel mondo lavorativo del proprio paese. Il lavoratore emigrato non si sente mai in condizioni di stabilità: nell’officina, nella casa, nella pensione sarà sempre l’ultimo ad essere accettato ed il primo ad essere congedato. Bisognerebbe dargli la sicurezza circa la durata del suo lavoro. Infatti oggi la durata del soggiorno del lavoratore all’estero dipende:
- dal datore di lavoro;
- dal governo del paese di accoglienza, che è interessato a rinnovare il permesso di lavoro soltanto se gli manca la manodopera;
- dallo sviluppo economico del paese dell’emigrante che può offrirgli domani quel lavoro che oggi non vi trova.
Quando nei paesi sviluppati la mano d’opera è insufficiente per realizzare i piani di produttività, si fa ricorso alla mano d’opera straniera come “tappabuchi”. L’operazione è presentata come una misura temporanea e molti la ritengono tale in buona fede e fino a questo punto non ci sarebbe niente di male. Ma, lungi dallo scomparire, la mano d’opera straniera aumenta ed appare sempre più difficile trovare la maniera di sostituirla con quella locale. Oggi le cose sono arrivate al punto che numerosi paesi hanno un nuovo proletariato, meno retribuito, per compiere mansioni che sul posto nessuno vuole più accettare. Ed è questo un grave problema.
Un altro male è questo: attualmente la linea di divisione non passa più esattamente tra le classi sociali, ma tra gruppi etnici, il che solleva gravi problemi sociali che non si possono evitare se non prendendo in tempo misure convenienti per permettere l’assimilazione socioeconomica e culturale degli emigranti. Se questi non vengono incoraggiati ad apprendere la lingua, ad adottare la maniera di vita ed il modo di pensare del paese di adozione e a dividere i diritti e i doveri dei cittadini di questo paese, essi sono in pericolo di diventare per il resto della vita delle persone “spostate”.

L’ITALIA E L’EMIGRAZIONE

Storia e cause

Tralasciate le linee generali, mi accingo a parlare dell’emigrazione italiana. A questo punto mi accorgo che ai più sprovveduti potrebbe sembrare che abbia tralasciato del tutto il problema iniziale e lo abbia portato su scala più vasta, appunto quella nazionale. Vorrei dire che non è così in quanto, avendo l’Italia del Nord buone industrie, il lavoro per i settentrionali c’è, mentre coloro che devono lasciare il proprio paese sono proprio i meridionali che a volte oltrepassano i confini nazionali, a volte si fermano nelle regioni italiane più industrializzate. Poiché, comunque, è la maggioranza che da tinta ad un colore, da questo momento con emigrazione italiana intendo soprattutto dire meridionale, essendo quest’ultima la maggioranza.
Vorrei vedere questo fenomeno prima dal punto di vista storico.
Il grande esodo degli italiani ha rappresentato uno dei fenomeni più vistosi della nostra storia recente. Per molte regioni le correnti migratorie erano divenute da tempo una consuetudine: sulle Alpi e sugli Appennini, per esempio, c’erano ben poche opportunità di lavoro durante l’inverno. Gli uomini se ne andavano oltre frontiera ed i pastori portavano i loro greggi a pascolare assai lontano, nelle pianure sottostanti.. Per di più, comunque, si trattava di emigrazioni temporanee da regioni a regioni. Riguardo all’emigrazione permanente non abbiamo dati esatti fino al 1932, ma già nel 1861 si registravano 220.000 italiani all’estero. Verso il 1867 il numero degli italiani che annualmente lasciava la patria si aggirava sui centomila, nel 1901 circa mezzo milione, mentre nel solo 1913 ben 872.000 persone abbandonarono il nostro paese (cioè 1 su 40) ed infine risulta che nel 1914 vi erano circa 6.000.000 di italiani all’estero contro i 35.000.000 in patria.
I primi emigranti furono rifugiati politici come Foscolo, Mazzini, Rossetti e Garibaldi, ma verso la metà dell’800 iniziò l’esodo dei lavoratori, che in verità erano in maggioranza settentrionali. Poi furono i nostri lavoratori occasionali, i nostri braccianti agricoli che non possedevano alcuna proprietà che li legasse al suolo, a lasciare la Campania, la Calabria e la Sicilia. Di solito facevano ritorno in patria dopo aver messo da parte il loro gruzzoletto. Dopo il 1887, però, famiglie intere cominciarono ad andare all’estero tutte insieme e per sempre. Nel Mezzogiorno, il contadino povero, se non si ribellava, non aveva altra scelta che rassegnarsi al suo destino o emigrare.
Cerchiamo di vedere perché!
Il motivo che lo spingeva ad andarsene non era sempre e soltanto la fame di terra; al contrario la cosa, in molti casi, acquistava piuttosto l’aspetto di una fuga dal suolo ingrato. Il disboscamento, l’erosione del suolo e le recinzioni delle terre comunali avevano sconvolto l’economia rurale cui era avvezzo, facendogli perdere le sue risorse in legna da ardere e i suoi diritti di pascolo, favorendo anche la diffusione della malaria. Le alte imposte locali e statali assorbivano quello scarso margine di denaro liquido che avrebbe potuto far progredire le nostre zone che erano molto arretrate, tanto più ora che l’Italia aveva la pretesa di essere una grande potenza. Vi erano, come vedete, buone ragioni per trasferirsi in un luogo dove vi fossero delle condizioni meno gravose.
Un altro fatto, assolutamente da non trascurare, è che le nostre famiglie contadine erano particolarmente numerose e così i genitori mandavano i figli all’estero allo scopo di evitare un eccessivo frazionamento dell’eredità familiare. Poi sopravvenne la crisi dell’agricoltura, successivamente al 1887, che provocò un’acuta disoccupazione poiché un minor numero di braccia era bastante se i terreni, una volta coltivati a grano, venivano convertiti in pascoli per soddisfare le richieste di qualche industria casearia locale oppure se i latifondisti desideravano ridurre il volume dei salari che pagavano. D’altra parte le società di navigazione ricavano profitti così alti dal trasporto degli emigranti al punto da avere interesse a dare una buona pubblicità alla mancanza di manodopera all’estero, mentre coloro che ritornavano in patria portavano con se l’esperienza di un più alto tenore di vita che rendeva gli amici che erano rimasti scontenti e vogliosi di migliorare la propria sorte.
A questo punto possiamo dire che dopo il 1887 si forma il grande distacco: per i settentrionali lavoro nelle grandi industrie nascenti, per i meridionali l’emigrazione. Ma vediamo dove i nostri lavoratori si dirigevano.
In un primo momento l’esodo si indirizzò verso l’America del Sud da dove, dopo la stagione del raccolto, molti facevano in tempo a ritornare nella propria terra per la semina di primavera. In seguito esso si riversò verso gli Stati Uniti nella misura in cui nel sud America le terre rimaste libere andavano diminuendo e la necessità di capitale aumentava. A proposito degli Stati Uniti, c’è da dire che molti guardavano a questa nazione come al paese destinato a guidare il mondo in un’era e libertà e di progresso e lo stesso Cavour una volta minacciò di emigrarvi a sua volta. a parte questo motivo ideologico, che certamente non poteva toccare un povero lavoratore napoletano, l’attrazione maggiore era offerta dalle paghe relativamente alte e da una capacità inesauribile (apparentemente) di assimilazione. E così nel 1927 si calcolò che su 9 milioni di emigrati, 3 milioni e mezzo stavano nei soli Stati Uniti e di questi mezzo milione nella sola New York.

I vantaggi e gli svantaggi

Gli effetti di questo esodo in massa furono incalcolabili. Esso fu come una valvola di sicurezza che eliminò molti anarchici ed altri elementi indesiderabili; occorre dire che Mussolini stesso, quando rimase disoccupato tra il 1909 ed il 1910, progettò di emigrare negli Stati Uniti. In un certo senso, riguardo agli effetti dell’emigrazione, bisogna dire che per la nazione vantaggi e svantaggi si possono equilibrare. Forse la corrente migratoria contribuì, nei primi anni, a ritardare lo sviluppo del paese di un movimento operaio organizzato; ebbe anche l’effetto di provocare un rialzo dei salari, contrapposto a quello di indurre i proprietari terrieri a risparmiare manodopera abbandonando, per esempio, la coltura del grano a favore dell’allevamento del bestiame. Un beneficio particolare che non offre spunti a nessuna disputa fu costituito dal fatto che 500 milioni di lire affluirono in Italia sotto forma di rimesse dei nostri emigranti alle loro famiglie in ciascuno degli anni che precedettero immediatamente il 1914 e ciò non solo contribuì a riequilibrare la bilancia commerciale, ma, grazie all’afflusso di capitali nelle campagne, si inferse un grave colpo agli usurai locali e si rese più redditizia la terra. Gli “americani” (emigrati che ritornavano dall’America), facilmente riconoscibili dai denti d’oro o d’argento messi apposta in mostra, portavano con se nuove abitudini, nuove esigenze, nuove capacità, un più alto livello d’istruzione, un maggiore sentimento di indipendenza e soprattutto una chiara consapevolezza dei diritti nei confronti dei padroni e del governo.
Non sto, a questo punto, a spiegare il valore e l’importanza di tutto questo poiché mi sembra così semplice che starne a parlare ulteriormente sarà davvero attività oziosa. Spiego, al limite, l’importanza dell’ultimo concetto. I meridionali, che non avevano vissuto l’epopea dei Comuni e che erano rimasti estranei ai moti per unificare l’Italia, erano una massa analfabeta, facilmente addomesticabile da parte del clero (che è stato sempre in combutta con i nobili) e sempre attaccata al vecchio padrone, che giammai osava protestare e che preferiva piegarsi ad un troppo vile encomio che sfociava in una schiavitù di fatto, piuttosto che rivendicare i propri diritti; quindi il ritorno di questi fratelli emigranti contribuì a scuoterli da un secolare torpore. Fra le altre cose, gli “americani” offrivano una prova convincente che il saper leggere e scrivere rappresentava un effettivo vantaggio; a tal proposito aggiungerei che il clero ed il governo borbone si erano sempre prodigati per mantenere il popolo nell’ignoranza e nella superstizione per poterli maltrattare e sfruttare meglio, anzi i re Borboni davano il cattivo esempio essi stessi. Ora chi aspirava ad emigrare cominciava a temere di poter essere rimandato indietro dal porto di arrivo se analfabeta. Aveva inoltre bisogno di scrivere alla sua famiglia e questa a sua volta doveva essere in grado di leggere le sue lettere e non dover rivolgersi al solito prete a cui portare in compenso tanta roba che ben più poteva servire ai poveri suoi figli. In una nazione, in una società con una sviluppata coscienza familiare come è il nostro Mezzogiorno, questo era uno stimolo educativo che riuscì a vincere la secolare renitenza del sudista verso la penna e fu di gran lunga più efficace di tutti i decreti di Roma sull’istruzione obbligatoria. E così, grazie anche a questi emigranti, si è potuto battere la vecchia, ma mai doma politica della classe padronale basata sull’ignoranza dei lavoratori.

Il governo e l’emigrazione

A questo punto certamente vi sarete posti questa domanda: “ma quale fu l’atteggiamento del governo nei confronti di questo esodo? Era un atteggiamento che merita le nostre più feroci critiche, perché a parte il voler trattenere gli uomini in patria finché non avessero adempiuto agli obblighi di leva, esso si preoccupava poco o niente dell’emigrazione. Fu soltanto nel 1901 che venne istituito un apposito ufficio che aveva il compito di esercitare un controllo sui profittatori e le agenzie di viaggio che avevano organizzato quello che equivaleva ad un vero e proprio traffico di schiavi.
Quando il ministro Zanardelli si recò nel Mezzogiorno con lo scopo specifico di studiarne i problemi (e ci tengo a precisare che egli fu il primo ministro che avesse giudicato questa metà dell’Italia degna di una visita ufficiale e che, a favore dei lavoratori, nel 1889, riconobbe nel codice Zanardelli la libertà di sciopero), fu sorpreso e colpito quando il sindaco di Moliterno lo saluto “a nome degli ottomila abitanti di questo comune, tremila dei quali sono in America, mentre gli altri cinquemila si preparano a seguirli”. A questo punto credo di dover chiarire (e certamente ora sarà più facile) perché io parlo dell’emigrazione meridionale come dell’emigrazione nazionale. forse potrebbe bastare l’aneddoto che ho appena riportato, ma per capire meglio la situazione, io che sono renitente alle statistiche, vorrei riportare alcuni dati da cui balzerà fuori la rilevante prevalenza, la netta maggioranza degli emigranti meridionali su quelli di tutto il resto della penisola che finirete per darmi ragione.
Con questo non voglio assolutamente che qualcuno pensasse che il problema non toccasse anche il resto d’Italia; comunque veniamo a questi dati.
Fra il 1901 ed il 1913 emigrarono in America 4 milioni e 711.000 italiani di cui 3 milioni e 374.000 provenienti dal Mezzogiorno. Come vedete i meridionali erano quasi tre quarti degli emigranti e così mi sono permesso di generalizzare l’esodo meridionale. La politica del governo era in linea di massima una politica che possiamo definire del “lasciar fare” e fu solo con il Fascismo che ogni emigrante cominciò ad essere considerato come un elemento produttivo perduto per il paese. Mussolini sostituì al termine “emigrante” il più patriottico “italiano all’estero” ed elaborò la nuova teoria secondo cui questi emigranti non rispecchiavano la miseria del loro Paese quanto piuttosto la sovrabbondante energia di un popolo giovane, che aveva la missione di civilizzare il mondo.
Fino ad ora ho parlato delle cause delle cause di carattere economico, ho parlato dell’emigrazione come di un mezzo per la sopravvivenza, ma forse non ho espresso ancora molto bene le cause storiche, le persecuzioni, oso affermare, verso noi meridionali. La situazione del Mezzogiorno, già precaria, peggiorò all’indomani dell’unità dell’Italia e più a mal partito si trovarono i contadini. Questi cercarono di reagire attraverso quella che fu definita da Giustino Fortunato una vera e propria guerra civile: il brigantaggio, che indubbiamente era la manifestazione di una insostenibile condizione di miseria. Il governo non volle comprendere le cause storiche di questa guerriglia ed impiegò bersaglieri e soldati per una dura repressione: migliaia di contadini furono fucilati. Da allora per il Sud non tornò mai più la pace. Il Sud fu sempre più maltrattato, la sua borghesia agraria si alleò con quella industriale del Nord, le tariffe doganali danneggiarono la sua agricoltura, le legge funzionavano solo a favore delle regioni più moderne e ricche, le sue poche industrie tessili e meccaniche esistenti sotto i Borboni entrarono in crisi e dovettero chiudere. Lo Stato per sviluppare un’industria nazionale indipendente dovette proteggerla dalla concorrenza esterna con alti dazi; così l’industria settentrionale prosperava, ma chi ne pagava le spese era l’agricoltura meridionale poiché doveva acquistare i prodotti industriali del Nord a prezzo ben più caro che se li avesse potuto acquistare all’estero. Tutto questo esasperava il Meridionale che più volte si rivoltò e le sue rivolte venivano represse nel sangue. Centinaia di contadini furono uccisi nelle rivolte, mentre nel Nord i tribunali assolvevano famosi personaggi coinvolti negli scandali bancari. Se il nostro paese non fu insanguinato da altre tragiche rivolte lo si deve soprattutto all’emigrazione, perché centinaia di migliaia di contadini meridionali presero la via “dell’esilio” perché, per le infinite cause che ho espresso finora, nel Mezzogiorno non vi era posto per loro. Ma la classe dirigente continuava ad ignorare il Sud ed invece di risolvere i nostri problemi economici e sociali, cominciò ad agitare il mito delle colonie africane come soluzione della questione meridionale. Ma questa non fu che un surrogato dell’emigrazione. La conquista dell’Eritrea non era il frutto di un allargamento dei mercati industriali, ma aveva il fine di conservare l’equilibrio sociale interno aprendo nuovi sbocchi alla manodopera industriale. Ma ormai anche il contadino meridionale capiva; ormai da troppo tempo si sentiva preso in giro, non voleva più belle parole che gli addolcissero l’amaro dell’esistenza: troppo aveva pagato gli sbagli degli altri, le fortune degli altri. I termini patriottici non gli davano pane, i surrogati non gli bastavano più. Forse la conquista dell’Etiopia fu un mito in cui i meridionali credettero davvero perché nel sud vi erano troppi studenti e laureati disoccupati (come si vede un è un problema che sia sorto all’improvviso, come alcuni tradizionalisti ed intransigenti fautori del fascismo credono) o senza mestiere e contadini carichi di figli senza terra e senza lavoro. La guerra abissina fu quindi un surrogato dell’emigrazione. Inoltre c’era la speranza di trovare in Africa una sistemazione più dignitosa e civile, poiché l’Etiopia era dipinta come un eldorado, una terra felice dove i contadini sarebbero potuto finalmente diventare proprietari terrieri. Così era vista l’Africa, così fu popolare nell’Italia Meridionale: come un’alternativa all’emigrazione. Ma ancora una volta furono delusi. Quelli che ebbero la fortuna di rimanere in Etiopia vi rimasero come soldati o, nei casi più fortunati, come operai nelle imprese che costruivano le strade. La maggioranza fu smobilitata e dovette rimpatriare, consumando ben presto i pochi risparmi messi da parte durante la campagna. così il mito dell’Etiopia fu un episodio senza peso nella vita del Mezzogiorno. I contadini meridionali capirono presto quale era la differenza tra andare a fare i coloni in Africa o emigrare in un ricco paese industriale come gli Stati Uniti d’America. dove, anche se a costo di enormi sacrifici, c’era la speranza di dare un avvenire dignitoso ai propri figli. A questo punto vorrei chiudere questa analisi storica dell’emigrazione meridionale dicendo che da quando è sorto il problema lo Stato in qualche modo, anche se solo per coprire la faccia, ha cercato di fare qualcosa, ma sono stati provvedimenti privi di una reale consistenza, avendo affrontato il problema troppo leggermente, cercando le soluzioni lontane, senza aver il coraggio di trovare le cause nel proprio seno e tutte le misure adottate si sono risolte in un danno per i suoi figli che sempre hanno contribuito allo sviluppo economico dell’Italia (che ben poco ha fatto per loro). Il resto è cosa dei nostri giorni, ma non per questo sia meno brutto o meno importante di quello fino a questo momento analizzato.

L’EMIGRAZIONE OGGI

Avendo esaurito la storia dell’emigrazione meridionale, dopo aver cercato le varie cause e gli effetti che hanno accompagnato quest’esodo lungo la storia, vorrei cercare di presentarla negli aspetti attuali; prima di affrontare questo esame, però, credo che sia anche giusto dire che ormai si sta assistendo ad una certa forma di immigrazione, segno che qualcosa sta cambiando. Dico “qualcosa” perché il problema è ben lungi dall’essere risolto.
Un’altra precisazione che ci tengo a fare è che esaminerò il problema da meridionalista .. e mi spiego subito. Se togliamo lo studio dei critici, persone autorevoli di cui possiamo fidarci ampiamente, l’emigrazione meridionale secondo me è stata trattata molto male e le persone sprovvedute, dovendo parlare di questo problema, assumono certi atteggiamenti pseudoumanitari, pieni di qualcosa che a prima vista sembra carità cristiana, con discorsi pieni di pietà ed affetto che sembrano voler strappare le lacrime ed invece esulano completamente il problema. Noi non vogliamo belle parole, non vogliamo passare per i martiri della situazione, ma vogliamo la sicurezza. E nonostante l’immigrazione, noi giovani dobbiamo inserire nelle nostre prospettive per il futuro proprio l’emigrazione, così come fecero i nostri nonni e come ha fatto qualche nostro genitore. Noi giovani, noi studenti, ci troviamo un futuro denso di perplessità, la disoccupazione si presenta ai nostri occhi come uno spettro spaventoso che non offre alcuna alternativa. Le ultime statistiche calcolano in Italia quasi due milioni di disoccupati (ma in realtà se calcoliamo i lavoratori dediti al lavoro nero, i sottoccupati e gli inoccupati sono molto di più), ed è inutile dirlo che la maggioranza è meridionale. Quindi, non trovandosi posti di lavoro per tante persone, non vedo proprio come si troveranno i posti per i giovani. E proprio per questo motivo c’è grande agitazione, le rivolte assumono i segni di protesta, oggi come allora interviene la polizia: la situazione non è cambiata. Certamente, come dicevo prima, la qualcosa è cambiato, ma l’operaio si sente ancora oggi attratto dall’estero. Ho visto gente che aveva un lavoro decente, che assolutamente non aveva bisogno di lasciare il suo paese (che poi era il mio paese) e, nonostante tutto, ha deciso di affrontare l’ignoto, l’estero. Perché? Ho parlato con uno di questi e dalle sue parole ho capito che il mito dell’estero lo aveva esaltato, parlava bene di una nazione che non aveva mai visto, era sicuro di tutto. Certamente, a dispetto di quello che possono dire i Settentrionalisti (che in questo caso sono dei veri e propri razzisti), il lavoratore meridionale è un ottimo lavoratore, è duro, tenace e non si stanca mai. Se questo sembra cozzare contro il fatto che l’assenteismo maggiore nelle fabbriche si verifica proprio al sud, è perché il nostro contadino con l’assenteismo si vuol ripagare dei sacrifici, del super sfruttamento cui è stato sottoposto per secoli. Dicevo, quindi, della tenacia e della qualità del nostro lavoratore che danno allo stesso una garanzia di successo all’estero. Ma è sempre la stessa solfa; all’estero egli è guardato con diffidenza dal lavoratore locale: il nostro lavoratore è un concorrente, un rivale che potrebbe indurre il datore di lavoro ad abbassare il salario (abbassamento che potrebbe essere ed è accettato dal nostro, in quanto il salario resta sempre superiore di quello ricevuto in Italia). E così il nostro lavoratore si trova ad essere oggetto di una vera e propria discriminazione, a lui di solito vengono assegnati i lavori più meschini e faticosi, ed il datore di certo non interviene perché sa che l’emigrante non protesta, non può protestare, mentre il locale si. Ad un certo punto potrei dire, rubando le parole di una famosa canzone napoletana, che l’emigrato è “carne di macello”, si adatta a vivere in baracche, isolato come un cane rognoso e se invece di inserirsi nella società, forma un tutt’uno con i connazionali, allora è ancora peggio in quanto per prima cosa gli verrà a mancare la spinta necessaria per emergere e poi verrà ancora di più sottoposto a quella discriminazione in quanto, non trovandosi più solo, gli verrà meno anche quella pseudo pietà che potrebbe ricevere se fosse solo del tutto.
Un’altra cosa che fa soffrire molto l’emigrato meridionale è la lontananza dalla famiglia, perché esso è molto legato alla sua famiglia ed il pensiero di lavorare per essa da una parte lo spinge a lavorare come una bestia da soma, a fare i sacrifici più duri, dall’altra gli toglie ogni incentivo per ogni tentativo di rivolta, di ribellione tendenti ad ottenere un più umano trattamento.
Ed inoltre egli vive sempre nella paura, nel terrore di dover lasciare anche quel posto di lavoro. Questo purtroppo è vero ed i motivi potrebbero essere tanti. Il 12 marzo di quest’anno, se non vado errato, in Svizzera si è votato per decidere le sorti dei lavoratori stranieri e quindi anche degli italiani. Il partito xenofobo ha mascherato in tutti i modi possibili la questione, molto “delicatamente” non ha chiesto all’elettorato: “Volete cacciare via i milioni di emigrati?”, ma stringi stringi il senso era lo stesso. Fortunatamente gli svizzeri hanno rifiutato tutte le proposte, da popolo civile qual è, ma a questo punto c’è da preoccuparsi, c’è da fare qualche considerazione poiché questa del marzo 1976 è la terza proposta avanzata dagli xenofobi negli ultimi sei anni contro i lavoratori stranieri e credo che non sarà l’ultima. La considerazione che faccio è questa: questi tanto criticati xenofobi sono degli esseri cattivi, privi di carità cristiana, dei razzisti oppure anche all’interno della Svizzera (ma il discorso si può allargare a tutte le nazioni che ospitano emigranti) c’è qualcosa che non va? Gli xenofobi hanno portato avanti questa tesi “la barca è piena”. Certamente possiamo anche criticare questa affermazione, possiamo dire che non è vero, ma a lungo andare, raccogliendo tanti naufraghi anche la barca più grossa rischia di riempirsi. Altra constatazione da fare è questa: prima delle elezioni (in Svizzera) i giornali meridionali (io leggo quelli) parlavano molto di questo, c’era molta paura in giro ed era giusto che i giornali facessero sapere in giro che in Svizzera ci sono dei “cattivi che non ci vogliono bene”, “che ci vogliono cacciare”. I giornalisti sapevano molto bene che ad essere colpiti maggiormente sarebbero stati i loro fratelli del sud e quindi dovevano schierarsi in loro favore. E fin qui non c’è niente di male. Ma ad elezioni avvenute, anzi saputi i risultati e saputo che essi avevano vinto la loro battaglia, che cosa hanno fatto? Neppure un elogio al popolo svizzero, neppure un consiglio al governo circa il modo di proteggere i lavoratori, niente di niente ... e per me è stato molto difficile quel mattino del 14 marzo 1976 sapere i risultati. dopo tante ricerche ho scorto un trafiletto di poche righe con il seguente titolo “I lavoratori stranieri resteranno in Svizzera”. L’elettorato ha respinto a maggioranza tutte le proposte xenofobe. E’ la terza sconfitta per gli ultra nazionalisti. Poi si poteva leggere qualche critica a “questi” svizzeri e basta ... ormai non interessava più niente, mentre ben più importante è sembrato ai giornalisti di non deludere le aspettative dei tifosi di calcio e giù parole per le belle imprese calcistiche. Questo fatto mi ha urtato non poco: mettere in risalto una partita di calcio invece che un problema così importante! Non voglio speculare su questo risparmio di parole, ma voglio continuare con il tema più caro ai giornalisti e cioè il calcio, fenomeno mai abbastanza lodato dai giornali. Due giorni dopo ci sono state le partite di coppa e tra l’altro mi è saltato in evidenza l’eliminazione del Dinamo Dresda da parte dello Zurigo, una squadra svizzera. A questo punto vi chiederete: “Ma cosa c’entra questo con l’argomento che stiamo trattando?”. Può sembrare strano, ma una partita di calcio a livello internazionale a volte dice tante cose. L’importanza di questa partita sta nel fatto che la squadra svizzera ha potuto superare il turno grazie ad una rete messa a segno da un certo Cucinotta, un meridionale emigrato in Svizzera. Nei giorni successivi molti giornali hanno sprecato fiumi di parole per questo giovanotto, tante squadre hanno dichiarato di volerlo con loro, ma ben pochi (mi sembra un solo giornale, sportivo, e non vado errato) hanno visto in quel giovane un esempio di emigrato, uno dei tanti italiani che deve lasciare la sua patria per cercare fortuna altrove, fra gente che lo “accarezza” solo quando gli fa comodo. Questo fatto mi ha fatto pensare un poco. spero che mi scuserete se mi sto fermando un po’ troppo sul calcio, ma dal momento che anche questo mi sembra utile per capire l’importanza del problema che stiamo trattando continuerò anche su questo campo. A parte il fatto che tanta gente (calciatori) del sud devono trovare lavoro negli squadroni del nord (basti pensare a veri campioni come Causio, Anastasi, Garritano, il fatto che ci siano calciatori, come il bravo Cucinotta, in Svizzera o altrove, ci deve far gridare allo scandalo nello scandalo. A questo punto non vorrei fare un discorso sul lavoro sportivo, , ai suoi principi incostituzionali, ma dico solamente che se anche in un’industria sportiva come quella italiana, dove ogni anno si fanno affari per decine di miliardi, non riusciamo a trovare un posto per un Cucinotta, vuol dire che questa è veramente la fine. Se anche la più attrezzata delle industrie italiane (quella calcistica) obbliga la sua manodopera ad emigrare, per me significa solo due cose: che l’Italia è piena di forza lavoro che i gruppi dirigenziali non sanno sfruttare e che noi giovani non abbiamo più scampo.
In effetti attualmente l’emigrazione si riduce a questo. Potremo riempire decine di libri sul trattamento normativo o salariale dei lavoratori meridionali (o settentrionali, a questo punto siamo tutti sulla stessa barca), potremo parlare, esaminare le cause o gli effetti, ma saranno soltanto belle parole. a questo punto mi viene voglia di dire: “Beati gli emigrati che vengono sfruttati, che soffrono la lontananza della famiglia, che sono carne da macello, che vengono offesi, maltrattati, che vivono in un ambiente che non risponde alle loro esigenze; almeno loro hanno un posto di lavoro, hanno trovato rifugio , poveri naufraghi, in una barca che non era ancora piena e che, pure quando si è piena, hanno trovato un equipaggio che facesse loro spazio per non ributtarli nel mare tempestoso. E infelice me, che ho avuto l’infelice sorte di nascere su una barca piena e con la paura di trovare tutte le altre nelle stesse condizioni, di essere nato su una barca dove i giornalisti dedicano un’infinità di pagine allo sport e poche righe ai problemi più importanti del paese, dove la classe dirigenziale, tutta presa in intrighi, scandali e provocazioni verso le masse popolari, non riesce a rivolgersi alla povera gente, in una barca dove gli unici posti di lavoro che si vengono a creare sono quelli di ladro, rapinatore, sequestratore e bandito. Beati gli emigrati e me infelice per sempre”.


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