Il teatro

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'''IL TEATRO NELLA LETTERATURA LATINA''' '''IL TEATRO NELLA LETTERATURA LATINA'''
 +== GENERALITA' ==
È bene sgomberare il campo da ogni possibile equivoco: a Roma il teatro non ebbe mai la rilevanza avuta nell’antica Grecia, quando costituiva il perno della vita politica e religiosa, o nell’Inghilterra dell’epoca elisabettiana o nella Francia di Luigi XIV. Nell’antica Roma il teatro è stato sempre poco importante, al punto che fino al tempo di Silla non esistettero strutture fisse per tale attività. Il teatro altro non era che un’impalcatura di legno sulla quale si esibivano gli artisti. A questo si aggiunga, poi, che la professione di attore era considerata infamante per il cittadino romano al punto che l’attore professionista, per legge, era colpito da infamia. A dimostrazione ulteriore della scarsa incidenza del teatro nella cultura latina è la quasi totale assenza della tragedia. D’altra parte, ben diversamente dal coevo greco, quello latino, popolo pratico, concreto e legato alla terra, si esprimeva meglio con la commedia che meglio interpretava la vecchia anima italica. Ed il teatro latino, come d’altra parte tutti gli altri generi letterari, risente delle solite tre culture che hanno formato la cultura di quel popolo: l’etrusca, la greca e l’italica. Considerevole è soprattutto l’influsso etrusco. È bene sgomberare il campo da ogni possibile equivoco: a Roma il teatro non ebbe mai la rilevanza avuta nell’antica Grecia, quando costituiva il perno della vita politica e religiosa, o nell’Inghilterra dell’epoca elisabettiana o nella Francia di Luigi XIV. Nell’antica Roma il teatro è stato sempre poco importante, al punto che fino al tempo di Silla non esistettero strutture fisse per tale attività. Il teatro altro non era che un’impalcatura di legno sulla quale si esibivano gli artisti. A questo si aggiunga, poi, che la professione di attore era considerata infamante per il cittadino romano al punto che l’attore professionista, per legge, era colpito da infamia. A dimostrazione ulteriore della scarsa incidenza del teatro nella cultura latina è la quasi totale assenza della tragedia. D’altra parte, ben diversamente dal coevo greco, quello latino, popolo pratico, concreto e legato alla terra, si esprimeva meglio con la commedia che meglio interpretava la vecchia anima italica. Ed il teatro latino, come d’altra parte tutti gli altri generi letterari, risente delle solite tre culture che hanno formato la cultura di quel popolo: l’etrusca, la greca e l’italica. Considerevole è soprattutto l’influsso etrusco.
Dagli etruschi derivano i termini histriones, per indicare gli attori, e persona, (phersu) per indicare la maschera degli attori, ma soprattutto, cosa ancora più importante, l’usanza di allestire spettacoli pubblici con canti e danze, in occasione di ricorrenze pubbliche o feste religiose. Di origine etrusca erano anche i versi fescennini, le rozze rappresentazioni agresti piene di scherzi grossolani, lazzi, volgari frasi oscene ed espressioni salaci, dove, all’arte musicale tirrenica si univa la mordace spiritosità latina. Il fescennino si evolve e progredisce diventando “satura” una rappresentazione scenica ancora rudimentale dove predomina la musica e la danza, ma la presenza di attori e maschere le facevano perdere il carattere dell’improvvisazione fescennina anche se non possiamo parlare di teatro vero e proprio. L’atellana, che risente dell’ambiente osco-italico, è ancora affidata all’estemporaneità e all’estro degli attori, giacché non esistevano copioni scritti, ma con le sue maschere fisse e tipiche rappresenta un ulteriore passo avanti del teatro popolare. Dagli etruschi derivano i termini histriones, per indicare gli attori, e persona, (phersu) per indicare la maschera degli attori, ma soprattutto, cosa ancora più importante, l’usanza di allestire spettacoli pubblici con canti e danze, in occasione di ricorrenze pubbliche o feste religiose. Di origine etrusca erano anche i versi fescennini, le rozze rappresentazioni agresti piene di scherzi grossolani, lazzi, volgari frasi oscene ed espressioni salaci, dove, all’arte musicale tirrenica si univa la mordace spiritosità latina. Il fescennino si evolve e progredisce diventando “satura” una rappresentazione scenica ancora rudimentale dove predomina la musica e la danza, ma la presenza di attori e maschere le facevano perdere il carattere dell’improvvisazione fescennina anche se non possiamo parlare di teatro vero e proprio. L’atellana, che risente dell’ambiente osco-italico, è ancora affidata all’estemporaneità e all’estro degli attori, giacché non esistevano copioni scritti, ma con le sue maschere fisse e tipiche rappresenta un ulteriore passo avanti del teatro popolare.
 +== LA FABULA TOGATA ==
 +Plauto, Cecilio Stazio e Terenzio furono i tre grandi della commedia latina di ispirazione greca. Contemporaneamente, però, per naturale reazione dello spirito latino contro la supremazia ellenica, reazione che già si era vista con Catone il Censore e Nevio, si affermò un teatro di ispirazione nazionale, più popolaresco e grossolano, detto fabula togata. Il nome, forse non tutti sanno, gli fu dato perché gli attori non indossavano il pallio greco, ma la toga, indumento tipicamente romano. In questo genere di teatro si rispecchiava la vita del ceto più umile della società e gli ambienti non erano mai signorili o raffinati, bensì rozzi e grossolani. Proprio per gli ambienti che portava in scena, la fabula togata fu detta anche tabernaria, vale a dire “di taverna” (o di bottega).
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 +Il successo di questo genere di commedia fu piuttosto breve soprattutto perché soddisfaceva sempre meno il palato dei romani che, per contro, diventavano sempre più esigenti e raffinati. Tutta la produzione degli autori di fabulae togatae, purtroppo, salvo pochi frammenti, è andata perduta.
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 +In ogni modo, gli autori più importanti di questo genere furono Titinio, Afranio ed Atta. Dei tre il più rilevante fu senza dubbio Lucio Afranio, vissuto nell'età dei Gracchi e di Mario e Silla. Di lui, che fu grande ammiratore di Terenzio, ci restano 400 versi e 43 titoli. Le commedie più famose furono: “Compitalia”, ispirata alle feste nei crocicchi delle strade, e “Consabrini” (I cugini). In quest’ultima l’autore affronta il tema pedagogico dell’educazione dei figli: Afranio era per la mitezza e la comprensione.
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 +Di Tito Quinzio Atta, morto nel 77 a.C., ci restano 11 titoli, tra cui Tiro Proficiscen, e pochi versi.
 +== L’ATELLANA ==
 +Più che dalla fabula togata, in verità, l’espressione del teatro indigeno è rappresentata dalla Fabula Atellana. Questo tipo di commedia proveniva, come anche il nome ci dice, dalla città di Atella, in Campania. A differenza della palliata e della togata che avevano personaggi scelti liberamente, l’atellana aveva personaggi fissi. Essa è detta commedia delle maschere perché gli attori, per rappresentarla, si mettevano appunto le maschere e si vestivano come il personaggio che interpretavano. E così come la “commedia dell’arte” aveva i vari Pantalone, Arlecchino e Pulcinella, anche l’atellana aveva i suoi personaggi specifici. C’era Maccus, tonto e fesso, ed il vecchio babbeo Pappus, raggirato da tutti ed in tutti i modi, specialmente nelle sue voglie amorose; Bucco, ciarliero e mangione, era il terzo personaggio tipico, il cui nome deriva da bucca, cioè la bocca appunto per parlare e per mangiare; infine c’era Dossenus, il gobbo (da dorsum cioè dorso). Questi erano le fonti del riso popolare, erano essi a far divertire gli spettatori e, con le loro canagliate e buffonate, dare al popolo allegria grassa e spensierata.
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 +Nel periodo di Plauto e Terenzio, l’atellana, per la natura ed il carattere popolare, non ebbe vita artistica propria; non aveva, infatti, un copione scritto e la sua trama era lasciata all’improvvisazione degli attori. Nel periodo di Silla, però, visse un periodo di buona prosperità ed assurse a genere letterario. Uno tra i più noti autori di atellane dell'età di Silla fu Novio, di cui ci rimangono solo 44 titoli ed un centinaio di versi, spesso gustosi per le invenzioni linguistiche e le bizzarre metafore. Tra i titoli ricordiamo Bubulcus, Pappus Praeteritus, Maccus, Bucculus ed Hercules coactor.
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 +Altro grande scrittore di atellane fu Lucio Pomponio, bolognese. Contemporaneo di Novio, Pomponio fu con lui il principale autore di farse atellane, che portò anzi a forma letteraria. Pomponio coltivò anche la fabula togata e la parodia mitologica. Di lui si conoscono 70 titoli di sue opere e pochi frammenti, che mostrano un linguaggio popolare e scene di vita quotidiana di immediata comicità.
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 +Purtroppo di tutte le opere di questo autore ci resta quasi niente: pochi versi anche se con tantissimi titoli. In ogni modo le farse più comiche dovevano essere quelle che riguardavano la sfera delle competizioni elettorali, sul cui argomento scrissero sia Novio sia Pomponio. Più di tutte doveva suscitare il riso quella intitolata Pappus Praeteritus (cioè Pappo sconfitto alle elezioni), tanto più che la sconfitta elettorale era per i romani una grandissima umiliazione.
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 +Altre commedie si reggevano sul classico e sempre umoristico scambio di persona o sull’equivoco, come “Macci gemini” (i gemelli Macci) di Pomponio e “Duo Dossenni” di Novio, senza tralasciare i ridicoli travestimenti, come “Maccus virgo” (Macco travestito da ragazza), anche questa di Pomponio.
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 +Come si è detto, dai frammenti non è possibile farsi un’idea chiara dell’Atellana; pertanto il miglior documento su questo genere teatrale resta la scenetta riportata da Orazio nella quinta satira del Libro I, dove è descritta la gara buffonesca tra Sarmento e Messio Cicirro. In essa non c’è alcuna delle maschere fisse che conosciamo, ma si incontra un certo Messio Cicirro, di origine osca ... E piace pensare che Cicirro, che significa galletto, sia l’antenato di Pulcinella, anch’esso “pulcino”, anche perché proveniente dalla stessa terra.
 +== IL MIMO ==
 +Nell’età di Cesare, per merito di Laberio, un romano, e di Publio Siro, un forestiero, un altro genere teatrale raggiunse una propria dignità letteraria ed autonomia: il mimo. A proposito di questo, si può tranquillamente affermare che esso non è certo un’invenzione latina o italica, ma è un’arte nata con l’uomo (dal greco mìmesis = imitare). Anche dal punto di vista letterario, il mimo non è indigeno poiché già aveva avuto la sua consacrazione nel mondo greco con il siracusano Sofrone (secolo V a.C.) e, soprattutto, in epoca ellenistica, con Eroda (o Eronda), vissuto nel III secolo a.C., autore dei famosi Mimiambi (mimi in giambi). Nella Magna Grecia, in ogni caso, il mimo era stato sempre fiorente, ma, non essendo scritto, era affidato all’estro ed all’improvvisazione degli attori, una specie di commedia dell’arte.
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 +La fortuna del mimo aumentò quando, dal 173 a.C., diventò lo spettacolo che accompagnava le Floralia, le feste primaverili in onore della dea Flora. Caratteristiche di questo spettacolo erano sia il fatto che in esso recitavano anche le donne sia la sua estrema licenziosità che scandalizzava i personaggi più morigerati, come Catone l’Uticense che in un’occasione uscì disgustato dallo spettacolo.
 +
 +Verso la metà del I secolo a.C. con Laberio il mimo diventò genere letterario scritto.

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IL TEATRO NELLA LETTERATURA LATINA

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GENERALITA'

È bene sgomberare il campo da ogni possibile equivoco: a Roma il teatro non ebbe mai la rilevanza avuta nell’antica Grecia, quando costituiva il perno della vita politica e religiosa, o nell’Inghilterra dell’epoca elisabettiana o nella Francia di Luigi XIV. Nell’antica Roma il teatro è stato sempre poco importante, al punto che fino al tempo di Silla non esistettero strutture fisse per tale attività. Il teatro altro non era che un’impalcatura di legno sulla quale si esibivano gli artisti. A questo si aggiunga, poi, che la professione di attore era considerata infamante per il cittadino romano al punto che l’attore professionista, per legge, era colpito da infamia. A dimostrazione ulteriore della scarsa incidenza del teatro nella cultura latina è la quasi totale assenza della tragedia. D’altra parte, ben diversamente dal coevo greco, quello latino, popolo pratico, concreto e legato alla terra, si esprimeva meglio con la commedia che meglio interpretava la vecchia anima italica. Ed il teatro latino, come d’altra parte tutti gli altri generi letterari, risente delle solite tre culture che hanno formato la cultura di quel popolo: l’etrusca, la greca e l’italica. Considerevole è soprattutto l’influsso etrusco.

Dagli etruschi derivano i termini histriones, per indicare gli attori, e persona, (phersu) per indicare la maschera degli attori, ma soprattutto, cosa ancora più importante, l’usanza di allestire spettacoli pubblici con canti e danze, in occasione di ricorrenze pubbliche o feste religiose. Di origine etrusca erano anche i versi fescennini, le rozze rappresentazioni agresti piene di scherzi grossolani, lazzi, volgari frasi oscene ed espressioni salaci, dove, all’arte musicale tirrenica si univa la mordace spiritosità latina. Il fescennino si evolve e progredisce diventando “satura” una rappresentazione scenica ancora rudimentale dove predomina la musica e la danza, ma la presenza di attori e maschere le facevano perdere il carattere dell’improvvisazione fescennina anche se non possiamo parlare di teatro vero e proprio. L’atellana, che risente dell’ambiente osco-italico, è ancora affidata all’estemporaneità e all’estro degli attori, giacché non esistevano copioni scritti, ma con le sue maschere fisse e tipiche rappresenta un ulteriore passo avanti del teatro popolare.

LA FABULA TOGATA

Plauto, Cecilio Stazio e Terenzio furono i tre grandi della commedia latina di ispirazione greca. Contemporaneamente, però, per naturale reazione dello spirito latino contro la supremazia ellenica, reazione che già si era vista con Catone il Censore e Nevio, si affermò un teatro di ispirazione nazionale, più popolaresco e grossolano, detto fabula togata. Il nome, forse non tutti sanno, gli fu dato perché gli attori non indossavano il pallio greco, ma la toga, indumento tipicamente romano. In questo genere di teatro si rispecchiava la vita del ceto più umile della società e gli ambienti non erano mai signorili o raffinati, bensì rozzi e grossolani. Proprio per gli ambienti che portava in scena, la fabula togata fu detta anche tabernaria, vale a dire “di taverna” (o di bottega).

Il successo di questo genere di commedia fu piuttosto breve soprattutto perché soddisfaceva sempre meno il palato dei romani che, per contro, diventavano sempre più esigenti e raffinati. Tutta la produzione degli autori di fabulae togatae, purtroppo, salvo pochi frammenti, è andata perduta.

In ogni modo, gli autori più importanti di questo genere furono Titinio, Afranio ed Atta. Dei tre il più rilevante fu senza dubbio Lucio Afranio, vissuto nell'età dei Gracchi e di Mario e Silla. Di lui, che fu grande ammiratore di Terenzio, ci restano 400 versi e 43 titoli. Le commedie più famose furono: “Compitalia”, ispirata alle feste nei crocicchi delle strade, e “Consabrini” (I cugini). In quest’ultima l’autore affronta il tema pedagogico dell’educazione dei figli: Afranio era per la mitezza e la comprensione.

Di Tito Quinzio Atta, morto nel 77 a.C., ci restano 11 titoli, tra cui Tiro Proficiscen, e pochi versi.

L’ATELLANA

Più che dalla fabula togata, in verità, l’espressione del teatro indigeno è rappresentata dalla Fabula Atellana. Questo tipo di commedia proveniva, come anche il nome ci dice, dalla città di Atella, in Campania. A differenza della palliata e della togata che avevano personaggi scelti liberamente, l’atellana aveva personaggi fissi. Essa è detta commedia delle maschere perché gli attori, per rappresentarla, si mettevano appunto le maschere e si vestivano come il personaggio che interpretavano. E così come la “commedia dell’arte” aveva i vari Pantalone, Arlecchino e Pulcinella, anche l’atellana aveva i suoi personaggi specifici. C’era Maccus, tonto e fesso, ed il vecchio babbeo Pappus, raggirato da tutti ed in tutti i modi, specialmente nelle sue voglie amorose; Bucco, ciarliero e mangione, era il terzo personaggio tipico, il cui nome deriva da bucca, cioè la bocca appunto per parlare e per mangiare; infine c’era Dossenus, il gobbo (da dorsum cioè dorso). Questi erano le fonti del riso popolare, erano essi a far divertire gli spettatori e, con le loro canagliate e buffonate, dare al popolo allegria grassa e spensierata.

Nel periodo di Plauto e Terenzio, l’atellana, per la natura ed il carattere popolare, non ebbe vita artistica propria; non aveva, infatti, un copione scritto e la sua trama era lasciata all’improvvisazione degli attori. Nel periodo di Silla, però, visse un periodo di buona prosperità ed assurse a genere letterario. Uno tra i più noti autori di atellane dell'età di Silla fu Novio, di cui ci rimangono solo 44 titoli ed un centinaio di versi, spesso gustosi per le invenzioni linguistiche e le bizzarre metafore. Tra i titoli ricordiamo Bubulcus, Pappus Praeteritus, Maccus, Bucculus ed Hercules coactor.

Altro grande scrittore di atellane fu Lucio Pomponio, bolognese. Contemporaneo di Novio, Pomponio fu con lui il principale autore di farse atellane, che portò anzi a forma letteraria. Pomponio coltivò anche la fabula togata e la parodia mitologica. Di lui si conoscono 70 titoli di sue opere e pochi frammenti, che mostrano un linguaggio popolare e scene di vita quotidiana di immediata comicità.

Purtroppo di tutte le opere di questo autore ci resta quasi niente: pochi versi anche se con tantissimi titoli. In ogni modo le farse più comiche dovevano essere quelle che riguardavano la sfera delle competizioni elettorali, sul cui argomento scrissero sia Novio sia Pomponio. Più di tutte doveva suscitare il riso quella intitolata Pappus Praeteritus (cioè Pappo sconfitto alle elezioni), tanto più che la sconfitta elettorale era per i romani una grandissima umiliazione.

Altre commedie si reggevano sul classico e sempre umoristico scambio di persona o sull’equivoco, come “Macci gemini” (i gemelli Macci) di Pomponio e “Duo Dossenni” di Novio, senza tralasciare i ridicoli travestimenti, come “Maccus virgo” (Macco travestito da ragazza), anche questa di Pomponio.

Come si è detto, dai frammenti non è possibile farsi un’idea chiara dell’Atellana; pertanto il miglior documento su questo genere teatrale resta la scenetta riportata da Orazio nella quinta satira del Libro I, dove è descritta la gara buffonesca tra Sarmento e Messio Cicirro. In essa non c’è alcuna delle maschere fisse che conosciamo, ma si incontra un certo Messio Cicirro, di origine osca ... E piace pensare che Cicirro, che significa galletto, sia l’antenato di Pulcinella, anch’esso “pulcino”, anche perché proveniente dalla stessa terra.

IL MIMO

Nell’età di Cesare, per merito di Laberio, un romano, e di Publio Siro, un forestiero, un altro genere teatrale raggiunse una propria dignità letteraria ed autonomia: il mimo. A proposito di questo, si può tranquillamente affermare che esso non è certo un’invenzione latina o italica, ma è un’arte nata con l’uomo (dal greco mìmesis = imitare). Anche dal punto di vista letterario, il mimo non è indigeno poiché già aveva avuto la sua consacrazione nel mondo greco con il siracusano Sofrone (secolo V a.C.) e, soprattutto, in epoca ellenistica, con Eroda (o Eronda), vissuto nel III secolo a.C., autore dei famosi Mimiambi (mimi in giambi). Nella Magna Grecia, in ogni caso, il mimo era stato sempre fiorente, ma, non essendo scritto, era affidato all’estro ed all’improvvisazione degli attori, una specie di commedia dell’arte.

La fortuna del mimo aumentò quando, dal 173 a.C., diventò lo spettacolo che accompagnava le Floralia, le feste primaverili in onore della dea Flora. Caratteristiche di questo spettacolo erano sia il fatto che in esso recitavano anche le donne sia la sua estrema licenziosità che scandalizzava i personaggi più morigerati, come Catone l’Uticense che in un’occasione uscì disgustato dallo spettacolo.

Verso la metà del I secolo a.C. con Laberio il mimo diventò genere letterario scritto.

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