Il giudice ragazzino

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Revisione 17:57, 15 Nov 2008

IL GIUDICE RAGAZZINO

di

Marco C. - 1997

Saggio premiato al Concorso "Il giudice Livatino" (Scuola media statale)

Il mondo sta attraversando un momento cruciale, di immenso rinnovamento, sia politico, sia religioso, sia scientifico: gli ultimi cinquanta anni hanno visto e subito sconvolgimenti più numerosi e soprattutto più profondi che nei quattrocento precedenti.

Guardandoci intorno, possiamo dire che stiamo vivendo un momento abbastanza brutto, con la società in preda ad una crisi di valori e lacerata soprattutto da una profonda ferita: la mafia. È questo un gravissimo problema, soprattutto per noi giovani che rimaniamo smarriti, non avendo più esempi positivi da prendere a modello, quasi costretti a non fidarci più di nessuno in quanto ognuno potrebbe essere un delinquente pronto a farci del male.

Alcuni giorni fa, a scuola, abbiamo visto un film che si riallacciava proprio a questo argomento: narrava, infatti, la vita di Rosario Livatino. Questi era un giudice molto giovane che aveva studiato a Roma, ma era di origine siciliana. Egli era molto legato alla Sicilia; il suo era un vincolo d’affetto per la sua terra tanto ricca di storia e cultura, ma tanto umiliata da delinquenti e mafiosi.

Quando Rosario Livatino diventò sostituto procuratore fu inviato proprio nella sua isola, allo scopo di combattere la mafia. In quel periodo c’era la prassi, caldeggiata addirittura dal Presidente della Repubblica Cossiga, di far operare in Sicilia giudici molto giovani, in pratica subito dopo aver vinto il concorso. A motivare questa strategia era la certezza, o almeno la speranza, che i giovani avrebbero operato meglio. In effetti li si ritenevano più determinati dei giudici anziani in quanto, volendo far carriera, non si preoccupavano di ciò che poteva accadere alla propria persona. Non ancora consci di cosa era la mafia, ancora pieni di ideali giovanili, erano di conseguenza più coraggiosi, ma purtroppo anche privi dell’esperienza e dell’astuzia necessaria per combattere un nemico così potente e spietato.

Livatino fu inviato a Canicattì, in provincia di Agrigento e, nonostante la giovane età, agì sia con intelligenza che con astuzia. Non guardava in faccia a nessuno: era inflessibile e in nessun caso favoriva i malviventi. Nel film afferma che compito del giudice è solo far rispettare la legge: chi commette un crimine deve essere giudicato secondo la legge in vigore. Se questa presenta delle imperfezioni o delle lacune, la cosa non è di pertinenza del giudice: egli deve tendere al rispetto della legge in quanto tale, non se è buona o cattiva. Da privato cittadino potrà intraprendere tutte le azioni ritenute giuste e necessarie per farla modificare, ma nell’adempimento del proprio dovere deve essere libero da influenze politiche, religiose o anche morali. Livatino dice anche che il giudice deve condurre una vita irreprensibile ed onesta, deve avere molto riserbo nelle proprie azioni e soprattutto deve essere indipendente da tutto.

Nella lotta contro la mafia, Livatino evitò ogni forma di spettacolarizzazione, cosa che ritengo molto giusta; rifiutò anche la scorta perché, vivendo in un piccolo paese, avrebbe solo dato nell’occhio.

La mafia cercò vanamente di corromperlo. Per prima cosa gli furono inviate alcune bottiglie di vino, ma il giudice le respinse al mittente. Le stesse, detto per inciso, furono rotte sui muri della sua abitazione in segno di disprezzo. La mafia aveva usato un metodo molto subdolo e ingannevole: non si può infatti parlare di corruzione per qualche bottiglia di vino. Se Livatino, però, le avesse accettato, la cosa avrebbe significato che egli stava al gioco e di conseguenza si sarebbe passati a regali più consistenti.

Gli affari mafiosi si erano spostati da Palermo ad Agrigento perché quest’ultima città era meno controllata dallo Stato. Livatino, intanto, aveva scoperto raffinerie di droga proveniente dalla Colombia.

Nel film si vede anche il giudice Saetta, suo buon amico, il quale gli dice che si era in pericolo di morte quando, come a lui, non si riceveva più mandate lettere minatorie; ciò significava che non si voleva più minacciare l’interessato, ma eliminarlo. Poco tempo dopo Saetta fu ucciso insieme al figlio. Dopo che accade questo episodio, nel film si sente gridare che ci sono troppe garanzie, troppi riguardi e troppa politica. Quelle grida vogliono far intendere che i mafiosi spesso escono quasi subito dal carcere, che le leggi italiane al riguardo non sono sufficientemente severe e che spesso si assiste ad un vero connubio tra mafia e politica. Quasi a dimostrazione di ciò, Livatino chiede ad un onorevole come mai avesse ottenuto gran parte dei voti proprio nella provincia di Agrigento; non ottiene risposta ed il motivo è facile da intuire.

A volte gli imprenditori sono più mafiosi degli stessi mafiosi in quanto le loro attività vengono svolte al di fuori delle stesse leggi, come ad esempio la costruzione di case e palazzi su terreni agricoli o dove sarebbe vietata la costruzione.

Il giudice Livatino fu assassinato il 21 settembre 1990. Mentre viaggiava in auto sulla superstrada Agrigento-Palermo, un ostacolo lo costrinse a fermarsi; alcuni killer, a bordo di due moto, gli spararono e lo ferirono ad una spalla. Allora il giudice cercò scampo nella fuga, ma, raggiunto dai sicari, fu ucciso. Nonostante fosse già morto, l’assassino infierì sul suo corpo, sparandogli ancora in segno di sfregio e lasciandolo in una pozza di sangue. I colpevoli non sono stati ancora trovati.

Ad volere la sua morte fu una cosca mafiosa che riteneva il giudice corrotto dalla “famiglia” rivale: fu ucciso dunque perché ritenuto un pericoloso avversario.

Livatino combatté la mafia fino alla fine, pagando questo coraggio con la propria vita. Egli è diventato un esempio da imitare non solo per i giudici, ma per tutti noi. La giustizia, la lealtà, l’amore per la propria terra furono i valori nei quali credette e per i quali perse la vita.

E sono valori che purtroppo sembrano persi nel mondo di oggi.


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