Le origini della letteratura latina

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Le origini

La letteratura latina deve le sue origini alle tre grandi civiltà che fiorirono sulla nostra penisola: l’etrusca, la greca e l’italica (in quest’ultima sono racchiuse quella latina, osca ed umbra). Ognuna di esse diede il proprio contributo vitale alla nascita ed influenzò quella che, con la greca, sarà una delle maggiori letterature mondiali, se non addirittura la più grande. In effetti, la letteratura latina non fece altro che raccogliere quanto di buono e di caratteristico, anzi il meglio che offrivano le civiltà vicine facendolo confluire in un unico crogiuolo e ricavandone non un coacervo di elementi estranei tra loro, ma un prodotto nuovo ed originale. Non è cosa da poco.
Gli etruschi, è riconosciuto da tutti, avevano un altissimo senso religioso; i greci possedevano il gusto dell’arte e della speculazione filosofica; gli italici erano dotati di uno spirito pratico e realistico … da tutto ciò deriva un popolo, una civiltà e una letteratura dotati, nello stesso, tempo di spirito artistico e realistico, pratico e filosofico, politico e religioso. Non poteva essere diversamente, giacché queste grandi civiltà erano coesistite almeno fino al 285 a.C., anno in cui sul Sentino la grande coalizione italica di Etruschi, Sanniti, Umbri, Galli e Greci fu sconfitta pesantemente dai Romani, lasciando la via libera a questi ultimi per la conquista della penisola italica. Un risultato militare diverso, forse, avrebbe dato una diversa guida politica alla penisola italica, ma probabilmente la stessa civiltà.
Ritorniamo in ogni modo alla letteratura.
La lingua latina, in origine, non era che uno dei tanti dialetti dell’Italia, e neppure il più importante … lungo era il cammino che doveva fare per diventare la lingua e la letteratura che conosciamo, studiamo ed ammiriamo … un cammino durato secoli.
Le prime testimonianze di opere letterarie composte in lingua latina sono da situarsi in una fase che possiamo definire pre-letteraria. Esse sono costituite da testi attinenti la sfera sacra e religiosa, come i “carmina saliaria” o il “carmen Arvale”, di carattere popolare, come i “carmina triumphalia”, oppure dalle primitive forme di rappresentazione teatrale come i “versi fescennini” e le “fabulae atellane”.
Accanto a queste, ci sono anche le annotazioni cronachistiche, generalmente in forma annalistica, tenute normalmente dai pontefici massimi, ed i primi testi legislativi. L’arrivo in Italia di Livio Andronico, con alle spalle secoli di letteratura greca, fece morire sul nascere quella che poteva essere una letteratura autonoma per dare inizio ad un’altra che sembra essere il perfezionamento o la continuazione di una già esistente.
E cerchiamo di vedere i primi documenti, le prime attestazioni in latino ed i “generi letterari” esistenti prima di Livio Andronico.

Prime testimonianze

La testimonianza più antica della lingua latina ci è data dalla cosiddetta “Fibula Praenestina”, una bellissima spilla in oro, rinvenuta in una tomba di Preneste (odierna Palestrina, nel Lazio) e risalente al VII-VI secolo avanti Cristo. È noto che sugli oggetti funebri, ma molto spesso anche in quelli di uso comune, erano riportati il nome del proprietario o dell’artigiano che li aveva fabbricati. Orbene, sulla spilla in questione si legge “Manios med fhefhaked Numasioi”, una frase in un latino arcaico che in futuro sarebbe diventato "Manius me fecit Numasio" e cioè: "Manio mi fece per Numasio". Questo documento denota quanto abbiamo detto prima: la presenza nel latino di civiltà diverse; Manios, infatti, è un nominativo arcaico latino; med è una forma accusativa proto latina, fhefhaked una forma osca di perfetto con raddoppiamento e Numasioi è un dativo di forma greca.
Altro documento molto antico è l’iscrizione del “Lapis Niger”, rinvenuta nel 1889 in un cippo del foro romano; dovrebbe trattarsi di un divieto religioso. Autorevoli studiosi sostengono che tale iscrizione fosse posta sulla mitica tomba di Romolo, luogo sacro per eccellenza.
Oscure parole che sembrano riferirsi ad un rito sacro si trovano scritte sul "Vaso di Dueno", mentre su una coppa rinvenuta a Civita Castellana, infine, c’è incisa una epigrafe che anticipa di qualche secolo il “carpe diem” oraziano: “Foied vino pipafo, cra careno” e cioè “hodie vinum bibam, cras carebo”.
Come si vede si tratta di ben poca cosa, ma sono i germi dai quali si svilupperà la letteratura latina che conosciamo e tanto ammiriamo.

I Carmi

Il latino, popolo di contadini e di pastori, alla pari degli altri italici coevi, fu un popolo molto religioso, anzi superstizioso. Esso adorava soprattutto le divinità protettrici dei campi e delle attività legate all’agricoltura, alla pastorizia e agli eventi della vita. Naturalmente a questi dei erano offerti sacrifici e ad essi erano rivolte preghiere. Di queste orazioni qualcosa ci è giunto.
Il “Carmen Fratrum Arvale”, un inno rituale in versi saturni e redatto in un latino del VI –V secolo a.C., è uno fra i documenti più antichi della poesia religiosa latina. Esso era recitato durante le cerimonie religiose per i campi. A queste cerimonie, dette Ambarvalie, erano preposti i “Fratelli Arvali”, un collegio di dodici sacerdoti che immolavano gli animali, facevano libagioni e poi recitavano un carme, accompagnandolo con danza. Questa poesia era già di difficile interpretazione per i romani dell’età classica; da quel poco che ci resta, ne ricaviamo che si tratta di una preghiera rivolta ai Lari ed a Marte affinché proteggessero gli uomini ed i raccolti.
Il “Carmen Saliare”, invece, era la preghiera che recitavano i sacerdoti Salii, quelli che avevano il compito di custodire i dodici scudi sacri, fra i quali quello di Romolo. In questo carme è citato Giano, che si conferma così antichissima divinità latina dell’età dell’oro.
Anche dei “carmina triumphalia” ci resta pochissimo. Essi, in ogni modo, erano canti rozzi e salaci con i quali i soldati accompagnavano il trionfo del loro generale.
I “carmina conviviali”, invece, erano gli elogi che durante il banchetto funebre si facevano per gli illustri defunti.
I carmi trionfali ed i carmi conviviali possono ritenersi i germi della poesia epica latina ed erano composti nel verso nazionale romano, il saturnio, metro usato nella letteratura latina fino ad Ennio che per i suoi Annali lo sostituì con l’esametro.

Documenti in prosa

Accanto a questi documenti in versi, ce ne erano altri in prosa. Si trattava per lo più di "foedera", cioè trattati di alleanza con gli stati vicini; di “Leges regiae”, vale a dire di leggi promulgate nel periodo regio; dei “Commentarii pontificium”, ossia dei resoconti, su tutto ciò che era successo durante l’anno di carica, che le varie autorità facevano su apposite tavole. Questi documenti, che oggi sarebbero stati di importanza eccezionale, furono purtroppo distrutti soprattutto durante l’incendio di Roma per opera dei Galli di Brenno nel 390 a.C..
Ci sono rimaste le “Leggi delle XII Tavole”, risalenti al 451 a.C. quando una commissione di 10 uomini (decemviri) codificò il primo corpo di leggi scritte ed esposte al pubblico. Queste leggi rimasero nei secoli quale monumento di sapienza giuridica e costituirono il fondamento del diritto romano che ancora oggi è la base della legislazione di tutti i popoli civili.

I Versi Fescennini

Esistevano i fescennini. Questi erano versi improvvisati che costituivano dialoghi rozzi e licenziosi scambiati tra contadini in occasione di cerimoniali legati alle feste della fecondità, della vendemmia e del raccolto. Essi sono riconducibili all’ambiente proto-latino, ma fiorirono anche in ambiente etrusco. In verità il termine “fescennino” è, generalmente, collegato alla città etrusca di Fescennium, luogo di origine, secondo Catone, di buffoni itineranti che inscenavano simili dialoghi allo scopo di intrattenimento. Secondo Tito Livio, i versi fescennini furono introdotti in Roma nel terzo secolo a.C. per vivacizzare gli spettacoli di danza e musica di origine etrusca. Possono quindi essere considerati uno degli elementi da cui si sviluppò, in seguito, la “satura” latina.
Allo spirito dei fescennini si riallacciavano anche i frizzi, le facezie e le frasi spiritose in occasione di feste nuziali.

La Satura

Satura tota nostra est”, diceva con giusto orgoglio Quintiliano. I greci potevano rivendicare la paternità di tutti i generi della letteratura, ma non quello della satura che racchiude due elementi tipicamente italici: lo spirito farsesco dei fescennini e le rappresentazioni di musica e danza etrusche. La satura era rappresentata da “histriones” (attori) e consisteva in una rappresentazione teatrale mista di danze, musica e recitazione. Il stesso termine “satura” fa collegare la sua nascita a celebrazioni religiose, con offerte di primizie alla dea Cerere, accompagnate da canti e scene di carattere arguto e giocoso. “Satura lanx”, infatti, significa proprio “piatto colmo di cibo” (ovviamente da offrire alla dea).
Con Lucilio, in seguito, la satura assunse la caratteristica, che ancora oggi possiede, di critica dei costumi o di personaggi altolocati ed in vista.

L’Atellana

Altro genere che incontriamo in questo cammino, è l’atellana, o meglio la “fabula atellana”, che fu introdotta a Roma anch’essa nel terzo secolo a.C.. In origine l’atellana era una forma primitiva di teatro comico popolare rappresentata tra gli Osci della Campania e, soprattutto, nella città di Atella che le diede il nome. Era caratterizzata da un vivace realismo e dalla presenza di maschere fisse: Maccus, Bucco, Pappus, Dossenus.
A Roma, nel I secolo a.C., per opera di Novio e di Pomponio, l’atellana acquistò forma letteraria e costituì il pezzo finale (exodium) nella rappresentazione delle tragedie. Divenne, in pratica, quello che era il dramma satiresco della tragedia greca.

Conclusioni

Il periodo delle origini della letteratura convenzionalmente è fatto terminare nel 241 a.C., anno in cui Roma conclude vittoriosamente la prima guerra punica e diventa signora della penisola italica. L’anno successivo, nel 240 a.C., mentre in Grecia si vive già nel periodo alessandrino, a Roma Livio Andronico fa rappresentare la prima opera teatrale della latinità dando così inizio al cosiddetto periodo arcaico, che convenzionalmente è fatto terminare nel 78 a.C., anno della morte di Lucio Cornelio Silla.

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