Emigrazione

Da Pklab.

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L'EMIGRAZIONE
di
C.F.
Anno 1976


Parlare di emigrazione, specialmente per noi italiani e soprattutto per noi meridionali, significa mettere il classico "dito nella piaga". Certamente questo non è un valido motivo per eludere il problema, ma proprio perché si tratta di una piaga che ci perseguita e ci ammorba da tempo, oggi più che mai, dobbiamo parlarne, discuterne e cercare tutti i modi possibili per cacciare questa bestia, causa ed effetto di squilibri sociali.
Non ho il minimo proposito, con questo breve studio, di risolvere questo tormentoso problema che ci affligge; con un esame abbastanza organico, però, vorrei (se ci riesco) presentare il problema sotto tutti gli aspetti, anche quelli limitrofi, in modo da poter esprimere un giudizio critico e trarre le debite conclusioni. Per poter affrontare meglio il compito che mi sono proposto, vorrei prima dare un rapido accenno all’emigrazione in generale, al suo significato, per poi restringere il tutto fino a parlare della “nostra piaga”, la nostra emigrazione meridionale.
In questi ultimi anni le migrazioni internazionali dei lavoratori hanno raggiunti proporzioni fenomenali; in alcuni paesi i lavoratori stranieri rappresentano una considerevole parte della manodopera e quindi c’è una grande preoccupazione per la difficile integrazione degli immigrati, accresciuta dall’aggravarsi della crisi degli alloggi.


..... O M I S S I S ....


A parte il fatto che tanta gente (calciatori) del sud devono trovare lavoro negli squadroni del nord (basti pensare a veri campioni come Causio, Anastasi, Garritano, il fatto che ci siano calciatori, come il bravo Cucinotta, in Svizzera o altrove, ci deve far gridare allo scandalo nello scandalo. A questo punto non vorrei fare un discorso sul lavoro sportivo, , ai suoi principi incostituzionali, ma dico solamente che se anche in un’industria sportiva come quella italiana, dove ogni anno si fanno affari per decine di miliardi, non riusciamo a trovare un posto per un Cucinotta, vuol dire che questa è veramente la fine. Se anche la più attrezzata delle industrie italiane (quella calcistica) obbliga la sua manodopera ad emigrare, per me significa solo due cose: che l’Italia è piena di forza lavoro che i gruppi dirigenziali non sanno sfruttare e che noi giovani non abbiamo più scampo.
In effetti attualmente l’emigrazione si riduce a questo. Potremo riempire decine di libri sul trattamento normativo o salariale dei lavoratori meridionali (o settentrionali, a questo punto siamo tutti sulla stessa barca), potremo parlare, esaminare le cause o gli effetti, ma saranno soltanto belle parole. a questo punto mi viene voglia di dire: “Beati gli emigrati che vengono sfruttati, che soffrono la lontananza della famiglia, che sono carne da macello, che vengono offesi, maltrattati, che vivono in un ambiente che non risponde alle loro esigenze; almeno loro hanno un posto di lavoro, hanno trovato rifugio , poveri naufraghi, in una barca che non era ancora piena e che, pure quando si è piena, hanno trovato un equipaggio che facesse loro spazio per non ributtarli nel mare tempestoso. E infelice me, che ho avuto l’infelice sorte di nascere su una barca piena e con la paura di trovare tutte le altre nelle stesse condizioni, di essere nato su una barca dove i giornalisti dedicano un’infinità di pagine allo sport e poche righe ai problemi più importanti del paese, dove la classe dirigenziale, tutta presa in intrighi, scandali e provocazioni verso le masse popolari, non riesce a rivolgersi alla povera gente, in una barca dove gli unici posti di lavoro che si vengono a creare sono quelli di ladro, rapinatore, sequestratore e bandito. Beati gli emigrati e me infelice per sempre”.


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