Callimaco

Da Pklab.

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CALLIMACO (310 - 240 a.C.)

Callimaco è uno degli autori più importanti dell'età alessandrina e vari poeti latini si rifaranno a lui poiché fu il principale rappresentante teoretico di un nuovo tipo di poetica che si andò affermando nel suo tempo.

Vita

Sappiamo poco della vita di Calimaco: nacque verso il 310 a.C. e morì verso il 240 a.C.. Era di Cirene ed appartenente ad una famiglia che si diceva discendere da Batto, il mitico fondatore di quella colonia, e perciò i latini lo battezzarono il "Battiade". Certo la sua famiglia era agiata.

Callimaco studiò ad Atene e poi si recò ad Alessandria, dove per vivere, non sappiamo bene perché, fu costretto a fare il maestro di scuola in un piccolo sobborgo, Eleusi. In seguito il Battiate fu accolto a corte da Tolomeo 2° ed ebbe qualche incarico semi ufficiale al Museo. Prima si pensava alla sovraintendenza alla Biblioteca, cioè un grande incarico, ma è stato ritrovato un documento con la lista dei sovrintendenti alla biblioteca e fra questi non compare il suo nome. Perciò si è pensato a qualche incarico al Museo. L'acme del successo Callimaco lo raggiunse quando Tolomeo 3° sposò la sua concittadina Berenice che lo coprì di altri onori.

Opere

Callimaco fu un grande studioso e, anzi, il prototipo dei poeti alessandrini in quanto grammatico e poeta. Scrisse anche opere in prosa, fra cui la più importante fu una raccolta colossale in 120 libri: "Pìnaches" cioè "quadri", che fu la prima storia della letteratura greca da tramandare ai posteri. Callimaco poté scrivere quest'opera in quanto aveva libero accesso alla biblioteca e fece un vero e proprio catalogo di ciò che sapeva sugli autori: un perfetto dizionario. Purtroppo l'opera è andata perduta ed è stata una vera sfortuna, poiché con essa avremmo avuto conoscenze più vaste sulla letteratura greca.

Oltre a questa, Callimaco scrisse altri 800 libri di cui quasi nulla ci è giunto; d'intero abbiamo 6 inni e pochi epigrammi sparsi nell'antologia Palatina (63 in tutto) oltre qualche frammento di opere. Importantissimi, fra i resti, sono: "Aìtia", "Ecale", "Giambi" e da ricordare c'è anche l'"Ibis" che sarà copiato da Ovidio. Ma mentre il poeta latino attaccava un ex amico, Callimaco si rivolgeva al suo discepolo Apollonio Rodio.

Vediamo ora gli Aìtia, molto importante anche se ci rimangono solo 400 dei 4000 versi scritti in 4 libri. Sono importanti il prologo, l'amore di Aconsio e Cidippe ed il finale: la Chioma di Berenice, che sarà poi tradotta in latino da Catullo. La parola “aìtia” significa motivi, ma deve intendersi nel senso di origini, in quanto l'autore intendeva esporre le origini di varie feste civili e religiose. Anche se l'opera è in pessime condizioni, doveva essere molto importante. Era scritta in distici elegiaci. Il poeta narrava varie leggende e poi intercalava queste con osservazioni personali; questa ricostruzione, però, è solo ipotetica poiché la desumiamo da esempi di poesia latina che seguirono il modello callimacheo. Importante, per conoscere la poesia callimachea e per la polemica che impegnò l'autore, è il proemio di questa opera, in cui egli si rivolge ai suoi avversari, che chiama "Telchinì" (spiritelli maligni della mitologia), espone il suo canone estetico.

La polemica

Callimaco immagina che Invidia si era avvicinata ad Apollo sussurrandogli che Callimaco era un poeta di pochi versi e che il dio la cacciasse via con un calcio. dicendole che l'opera di Callimaco era la migliore. Lo stesso Apollo, poi, dava consigli, dicendo che si dovevano cercare strade mai tentate. In un altro passo, il poeta dice che l'Eufrate è un fiume grandioso per la sua portata, ma trascina con se molta immondizia e per questo egli preferisce una piccola fonte da cui sgorghi acqua pura e buona. Tutte queste metafore, in realtà, fanno parte di uno stesso discorso e cioè sono la sua posizione nella polemica letteraria di cui fu protagonista; si trattava di salvare o condannare un retaggio del passato: la poesia epica. Callimaco fu contro tale genere di poesia e su ciò non lascia dubbio alcuno una sua frase: "Odio il poema ciclico". Ancora più esplicita è quest'altra: mèga biblìon, mèga cacòn" e cioè: "grosso volume, grosso malanno". Egli affermava che chi avesse voluto comporre una grossa opera, era costretto a farla poco perfetta e poco raffinata. Se invece il poeta si impegna in composizioni di breve respiro, può riversare in esse tutte le sue qualità.

Altra sua affermazione è che la strada da seguire non deve essere calpestata da molti. Egli vuol dire che il poeta deve cercare argomenti non molto conosciuti, senza però inventarli ed infatti afferma: "Io non canto nulla che sia senza testimoni". Sappiamo che queste sue affermazioni furono molto combattute dagli avversari ed abbiamo un papiro, i cosiddetti "Scoli Fiorentini", in cui l'ignoto autore, commentando il prologo agli aìtia, nomina alcuni avversari. La tradizione vuole che il più accanito di questi fosse Apollonio Rodio, ma su questo papiro, mentre vediamo i nomi di Asclepiade e di Posidippo, non troviamo il suo. Questo per noi è un problema difficile, ma è da credere che forse questa polemica tra maestro e discepolo, nel corso dei secoli sia stata ingigantita e forse la polemica non riguardava il poema greco, ma avesse come inizio il giudizio su un famoso poema composto da Antimaco di Colofone (IV secolo a.C.), contemporaneo di Platone. Antimaco aveva scritto pure delle elegie amorose dedicate e Lide, la donna da cui prende nome la raccolta, e Platone, per cui il poema doveva essere solo morale, riscontrando nel Lide molte qualità morali, lo aveva molto lodato; per Callimaco, invece, quello era uno scritto senza pregio, troppo grosso e non ben lavorato. Gli avversari gli rinfacciarono la pretesa di volersi contrapporre al giudizio di un uomo come Platone e Callimaco, per nulla intimorito, rispose che Platone era un grande filosofo, ma che, riguardo all'arte, non capiva nulla. Così Callimaco fu il primo che affermò un principio oggi basilare e cioè la piena autonomia dell'arte dalla morale, l'arte per l'arte: il principio dell'arte pura, senza finalità. Egli dice che non si ha vera arte quando attraverso essa si fa propaganda ideologica.

Callimaco, poi, dice di odiare il mondo profano e l'opera d'arte deve essere indirizzata a pochissimi intenditori. Ma così, bisogna pur dire, che a furia di restringere si forma un circolo chiuso e poco si dice agli altri. Questa in breve fu la sostanza della polemica; ma l'attacco contro l'etica fu giustissimo, specialmente se si tiene conto dell'atmosfera di questa epoca; inoltre il poema epico è andato morendo con le vecchie "pòleis". Per Callimaco comporre opere di ispirazione omerica era una perdita di tempo perché è finita l'epoca del contatto tra opera e massa; così il Battiade è il primo a lottare contro i classici, il primo modernista, e dice che tra il classico e il contemporaneo preferisce quest'ultimo. Certo il poeta non toglie tutti i valori dell'epica, perché questa trova giustificazione in periodi particolari, però scrivere poemi ora significava scrivere il falso in quanto l'autore non sentiva questi argomenti e teneva lo sguardo rivolto al passato. Anche questo è un principio adesso accettato, ma non certamente lo era allora; così riconosciamo a Callimaco il merito di aver scoperto che l'arte va di pari passo con i tempi.

Un'altra accusa che ebbe fu quella che egli odiava la poesia epica perché incapace di scrivere qualcosa al riguardo e forse, ma la cosa non è sicura, proprio per questo compose un epillio intitolato Ecale, che non ci è giunto, ma di cui abbiamo il riassunto. Questo poemetto di epico ha solo l'argomento e cioè la lotta tra Teseo e il toro che infestava la piana di Maratona. Molti avevano cercato, senza riuscirci, di uccidere il toro. Alla fine ci prova Teseo che, colto da una tempesta, chiede ospitalità in una casupola di contadini e viene accolto da una vecchietta, Ecale, in modo molto familiare benché questa non sappia chi sia l'ospite.

Qui il poeta sembra dimenticare del tutto l'argomento epico per dedicare il resto dell'epillio alla descrizione di quella casupola e di particolari secondari. Il giorno successivo, Teseo riparte ed uccide il toro; ritornando, vorrebbe dimostrare la sua riconoscenza ad Ecale e rivelarle la propria identità, ma la trova morta. Molto dispiaciuto, decide di onorarla istituendo in suo onore le feste Ecalesie e il culto a Zeus Ecalesio: così Callimaco resta fedele al suo ideale poetico. E bisogna dire che in questo egli è molto bravo.

Abbiamo poi alcuni giambi, per lo più in pessimo stato eccetto il 1° e il 4°. Si crede che questi fossero 17, mentre alcuni ritengono che erano solo 13. L'argomento di questi è vario, come vario è il metro anche se primeggia il "coliambo", caratteristico delle satire. Gli "Epigrammi" sono 63, sparsi nell'Antologia Palatina. Hanno le caratteristiche comuni: semplicità, brevità ed arguzia finale. Spesso l'arguzia finale smorza l'onda del sentimento e quando rinuncia ad essa, come nelle composizioni funerarie, Callimaco riesce a dare il meglio di sé.

Abbiamo infine gli "Inni", dei quali solo 6 ci sono giunti integri: Inno a Zeus, ad Apollo, ad Artemide, a Delo, ai lavacri di Pallade, a Demetra. I primi 4, in esametri, sono in dialetto ionico-epico, cioè ionico con influenze eoliche; gli ultimi 2 in dorico, di cui il 5° in distici elegiaci ed il 6° in esametri. Quelli di Callimaco sono inni sacri e per la tecnica esteriore ed il formulario iniziale ripetono motivi omerici, ma questi ultimi avevano qualcosa più di religioso rispetto a quelli di Callimaco.

Comunque Callimaco ha inteso contrapporsi al modello omerico, narrando il mito in rapidi scorsi, ricchi di erudizione e allusioni, che contrasta con la maniera lenta, solenne e distesa dello stile rapsodico.


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