A zio Lazzariello

Da Pklab.

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Città del Sole, 19.1.2010

Caro zio Lazzariello,

sono passato davanti al bar, al nostro bar, ed ho visto che al nostro tavolo non gioca più nessuno … Ho pensato a te quasi con paura; per un istante ho temuto un tuo rimprovero, ma sono sicuro che tu mi hai perdonato se quel giorno di tanti anni fa vi abbandonai inopinatamente per inseguire un destino maledetto.
Tu sai che ti volevo bene e, adesso che sei nel mondo della verità e tutto vedi, sai anche che non era colpa mia, ma del fato che mi aveva costretto a una vita da lemming solitario: dovevo andare via; qualcuno o qualcosa più forte di me mi trascinava, non potevo resistere, non ne avevo la forza e, probabilmente, neppure la volontà.
Credimi! Non volevo sfasciare il nostro meraviglioso tavolo; anzi, se ti devo dire la verità, ero proprio sicuro che avreste continuato benissimo anche senza di me. invece, poco tempo, dopo seppi anche Poldo era andato via: aveva abbandonato il tavolo e lasciato il nostro Paese, anche lui trascinato da che spesso e volentieri si diverte con i poveri mortali.
Poi, stanchi di aspettare inutilmente i vostri compagni di gioco che tardavano a venire, foste tu ed Ertenisio a lasciare il tavolo ed andare via. Tutti e quattro, in un qualche modo, siamo morti.
Anche il nostro barista non c’è più, anche lui ha lasciato il bar ed è partito per l’ultimo viaggio, quasi avesse ultimato la sua missione, quasi avesse capito che non aveva senso portare il solito birrone a gente che non capiva lo spirito di quel tavolo, di quel bar.
Caro zio Lazzariello,
ora sono pentito di aver vigliaccamente lasciato il tavolo mentre stavo giocando una partita che sapevo di star perdendo. Andai via credendo di aver indovinato la mossa vincente, di aver beffato il destino ... ed invece ero io ad aver perso, ero io che ero stato fregato ancora una volta … purtroppo non l’ultima.
Se avessi chiesto consiglio a te, che eri di lunga esperienza, probabilmente avrei avuto la tua benedizione come viatico, ma sicuramente anche l’avvertimento che si può sfuggire a tutto, eccetto che al destino.
Così è stato!
Ora provo quasi disagio a fermarmi davanti al nostro bar. Da una parte c’è il ricordo di tante ore trascorse serene, con le tue battute argute e sagge, con l’incompresa generosità ed il buon cuore di Poldo, con la velata polemica ironia di Ertenisio, la semplicità di Bifano … dall’altra parte il vuoto, un vuoto che non è solo fisico, ma soprattutto mentale. Che tavolo era il nostro! Mai un urlo, mai una parolaccia, mai un litigio … eppure eravamo giocatori accaniti, forse come nessuno.
Poldo passava molto tempo a studiare tutte le possibilità di gioco e ad una memoria prodigiosa abbinava quel briciolo di fantasia che a volte lo portava a conclusioni inaspettate, nel bene e nel male.
A te e ad Ertenisio non piaceva quel tocco di “pazzia” di Poldo, che per certi versi vi disorientava. Voi, esperti del gioco e della vita, non amavate imbarcarvi in inutili avventure e vi affidavate alle mosse classiche: rispondere al compagno; evitare di mettersi sotto scopa se non necessario, “pazzeia ca fessa ‘e soreta, ma nù c’ò sette ‘e denare”; e via di seguito. Per questo voi due preferivate giocare con me: ci intendevamo bene ed io mai avrei criticato una vostra giocata. Voi per me eravate dei miti, la vostra esperienza antica mi affascinava, la vostra saggezza mi soggiogava.
A volte Bifano dimenticava qualche carta, non rispondeva al compagno … allora accadeva che qualche bonario rimprovero se lo prendeva. Fu così che Poldo, per evitare inutili offese, coniò quella famosa frase che tanto piace a Carlo: “Non è che Bifano è scarso a scopone, solo è che ha una tecnica particolare”.
Anche Bifano, uomo semplice e umile, era parte integrante del nostro gruppo … gli altri erano contorno.
Caro zio Lazzariello,
nessuno gioca più al nostro tavolo. Il nostro gruppo si è sciolto ed io ne sento la mancanza; mi manchi soprattutto tu, la tua bonarietà, la tua saggezza, la tua arguzia ed ogni volta che penso a te o che vengo al cimitero per farti visita sono triste: il tuo sguardo sereno sembra trafiggermi, mi fa male. Sono sempre più convinto che, più di ogni altro o altra cosa, sono stato io a spingerti verso la tomba. Se non avessi lasciato il tavolo, sono sicuro, tu avresti vissuto ancora altri anni sereni. Di questo ti chiedo perdono e spero che un giorno mi accetterai ancora al tuo tavolo per interminabili partite a scopone.

Anche questo lo scrisse il Tuscio


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