A fratel pompeo di s.

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Revisione 13:26, 24 Nov 2005

Città del Sole, 27.6.2002

Carissimo Pompeo,

tanto tempo è trascorso dall’ultima volta che ci siamo visti … non ricordo neppure quando è avvenuto, ma allora né tu né io potevamo sapere che sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo incontrati. Ora per rivederci dovrai intercedere presso San Pietro, o Eaco e Radamanto affinché permettano l’accesso della mia anima nel mondo dei beati e so che non sarà cosa facile. Oggi, in ogni modo, sono veramente dispiaciuto per non essere passato a salutarti quando il rettore decise di mandarmi via dall’Istituto e la tristezza mi invade al ricordo di te, della prima persona “importante” che mi ha voluto bene, che mi ha considerato “grande” e non più un bambino. Quel giorno, però, non passai a salutarti perché non immaginavo che quella sarebbe stata l’ultima volta che mettevo piede nell’Istituto, che non avrei mai più rivisto quella che era stata per tanti anni la mia casa, quelle persone che erano state la mia famiglia. Poi … non mi ci raccapezzai più e andai incontro al destino che spesso e volentieri mi trascinava perché stoltamente volevo resistergli.

Io ti ho sempre voluto bene e ti ho pensato spesso … la tua saggezza popolana mi illuminava, il tuo sorriso mi rasserenava, la tua calma bonaria mi dava pace, allora come oggi. Non ero mai uscito dalla borgata ed il mio mondo era limitato a rare case, poche persone, una scuola con cinque classi e due soli insegnanti, un asino che non mi portava in groppa, un porcellino da ingrassare e che avremmo ammazzato alla fine dell’anno, tre vitelli da allevare, la raccolta di figurine di Cenerentola e quella di “Marcellino pane e vino” da completare. Fu in questo piccolo mondo, anonimo, sonnacchioso, dove non accadeva mai niente, trascurato dalla Storia, ai margini del benessere, inconsapevole del “boom economico” … fu in questo mondo, ti dicevo, che in un mattino di primavera, a scuola, piombò quel ciclone che tu conoscevi bene: Padre A..

Vuoi diventare missionario? Missionario allora per me significava Padre Massaia e Vittorio Bòttego; missione per me era l’Africa selvaggia e misteriosa, gli esploratori, i cammelli, le palme, il deserto, le oasi; missione per me era l’avventura; missione per me era viaggiare; missione per me allora era la libertà … missione per me era un ghiacciolo nel caldo torrido di agosto.

Vuoi diventare missionario? E mi accorsi che il mio cervello si era bloccato e non sapeva più pensare, mentre nella mente mi scorrevano tutte le immagini di un sussidiario che avevo divorato e la visione di un mondo che avevo visto solo con la mia fantasia … Che voglia di rispondere si!

Io, caro Pompeo, non ho mai saputo decidere, soprattutto non ho mai saputo decidere bene … e risposi no, senza sapere neppure il perché, senza essere convinto di aver optato per il meglio, anzi con il dubbio atroce di avere fatto probabilmente la scelta peggiore. Forse fu un angelo cattivo che mi suggerì quella sciocca decisione, forse non lo so!

Poi, però, come tu sai, spinto dagli eventi e trascinato da un destino in vena di scherzare, mi ritrovai a Campagna, con gli altri futuri apostolini, per un periodo di prova; fu là che ti incontrai e subito provai una forte simpatia per te … che strano! Ancora oggi non riesco a spiegarmi come mai tutti i ragazzi, nessuno escluso, ti volessero tanto bene. Forse per la tua semplicità? Forse per la tua bontà? Forse per la tua umanità? Ma certo! Come ho fatto a non capirlo per tanti anni? … Non eri un eroe, non eri un santo, non un navigatore, non un vate; non eri un genio, non eri un idolo, non eri una persona da invidiare ... tu eri un essere umano, lo zio buono, il fratello maggiore, l’amico. Non eri mai distante come a volte, o spesso, lo erano gli altri; non ti si poteva accusare di niente, eri senza macchie, senza colpe … il tuo candore ti metteva al riparo da tutto. Credo che gli stessi padri missionari ti stimassero e ti volessero bene come te ne volevamo noi ragazzi … sono sicuro, caro Pompeo, che nessuno ha mai mosso una critica verso di te: eri inattaccabile.

Ricordo quando, a Campagna, venne a farci visita per la prima volta Padre N. … Era il nostro rettore! Eravamo tutti nella grande sala giochi, ma avevamo smesso di giocare, chiusi in un religioso silenzio; non volava una mosca, ci guardavamo negli occhi ... io, per quanto mi riguarda, ero intimorito come quel giorno quando ero in quarta elementare e doveva venire il Direttore della scuola … al suo arrivo fui l’unico a non alzarmi in piedi. Padre N. apparve all’improvviso, come un deus ex machina: un divo dei film americani. Era giovane, era bello, sapeva cantare, sapeva suonare, animava le feste, comandava su tutti: era un mito, lo invidiavamo, diventò il nostro idolo. Tutti da grande avremmo voluto essere come lui; io, appena l’età me lo avesse consentito, avrei voluto farmi crescere la barba come la sua (ed invece mi lasciai crescere una barba che più incolta non si può). Ho ancora una sua foto e anche oggi la penso come allora.

E Padre Aldo … buono, calmo, paziente ... ci insegnava matematica. Nessuno allora poteva pensare che avrebbe perso la vita per amore del prossimo, per gli ideali in cui credeva. È stato un vero apostolo e martire, ben diverso dai logorroici di oggi, da questi parolai che fanno finta di interessarsi e preoccuparsi dei poveri, dei derelitti, ma poi pretendono stipendi favolosi, macchine di servizio, onori e prebende varie. Questi moderni “buonisti” non sono come i nostri vecchi, cari benefattori che davano del proprio, poco o tanto che fosse non importa, umilmente, senza strombazzare le loro buone azioni, senza starnazzare come le galline che hanno fatto l’uovo. Questi novelli benefattori, invece, pretendono di aiutare il mondo con i soldi degli altri e sono solidali a parole, mentre meritano solo l’appellativo di ipocriti e di falsi. Non inganneranno, così facendo, il buon Dio al quale un giorno dovranno rendere conto pure loro! Il nostro Padre Aldo, invece, in Africa ci lasciò la vita, vittima dell’odio di quelle belve umane. Quando lo seppi, dalla televisione e dai giornali, fui molto dispiaciuto (anche se non lo vedevo da quasi venti anni); credo che, non visto, piansi per il dolore.

Ho ancora negli occhi Padre A., che pure non vedo da lustri: gigantesco, incredibilmente colto, abile oratore, sicuro di sé al limite della spavalderia, tanto da sembrare quasi arrogante. Egli girava per la provincia in lungo ed in largo, alla ricerca di nuovi apostolini per l’Istituto, nuove vocazioni … quante volte l’ho accompagnato! Non ho certo dimenticato Padre C.: vice rettore, economo, insegnante di matematica ... Ti ricordi Padre E. M.? Anche lui rettore … così fine nei modi e nel parlare da non avere uguali, esempio dell’alternanza della fortuna umana, ma soprattutto dimostrazione di serietà e di dedizione, di attaccamento ai voti di povertà, castità, ubbidienza ed andare in missione. Era un semplice missionario in Indonesia; ritornò in Italia per assumere l’incarico di Rettore; fu eletto Padre Provinciale e comandava su tutti in Italia; non rieletto, andò di nuovo in missione. Era sempre pronto per ogni eventuale chiamata, disponibile per qualsiasi ruolo, felice di impiegare le proprie energie dovunque ce ne fosse bisogno. Adesso sono veramente pentito di non essere andato a parlare con lui quando venne a Salerno e chiese di incontrarmi. Era ancora Padre Provinciale … io rifiutai l’incontro che mi aveva proposto credendo di dimostrare di essere un duro ed invece diedi prova, ancora una volta, di non saper né vincere né perdere, ma soprattutto di non saper decidere. Padre E. era davvero un signore, onesto e capace … Magari avessimo in Italia più gente così!

Padre N. … Erano tutti grandi personalità, ma tutti avevano qualche motivo per essere visti lontani, spesso, quando decidevano cose non gradite, erano vittime dell’ironia infantile degli apostolini, a volte addirittura odiati.

Tu sorridevi, dove essi ridevano … per questo tutti ti volevano bene! Anche Fratel P., il fratello contadino, era buono … adesso non ho alcun dubbio in proposito … eppure …. Un episodio me lo fece sentire ostile per tantissimo tempo. Certo, si trattò di una sciocchezza che forse non vale neppure la pena di essere ricordata, ma sono sicuro che tu nell’occasione ti saresti comportato diversamente.

Non ricordo se ti ho mai raccontato il fatto … credo di no. Eravamo nel suo orto, vicino ad una pianta di fichi. C’era sicuramente Black, il nostro cane da guardia, la mucca che pascolava solitaria e, mi sembra, l’insegnante di matematica, quel professor Pellegrino, persona sicuramente dotata di grande bontà, ma dall’espressione talmente cattiva che io, sicuramente uno dei migliori della classe, avevo terrore di lui quando mi interrogava. Franco, che fra tutti noi era il più ciarliero e faccia tosta, gli dice: “Fratel P., mi posso fare una fica?”. Fratel P., per tutta risposta, inopinatamente gli diede uno schiaffo dicendogli: “Non ti permettere di dire certe cose!”. Rimanemmo interdetti! Nessuno di noi osò proferire parola! Poi egli stesso ci ricordò che si dice “fico” e non “fica”, ma non ci disse perché. Che ne sapevamo noi salernitani, a undici anni, di fichi e di fiche? Questo fatto me lo rese antipatico per molti anni; poi quella rabbia infantile mi passò, ma ancora oggi ritengo che non fu giusto prendersi un ceffone perché ci hanno sempre detto che sulla pianta di fichi crescono le “fiche”. Tu, ci metterei la mano sul fuoco, non avresti mai dato uno schiaffo ad uno di noi. Non so come, ma sono sicuro che ci avresti fatto capire le medesime cose senza che nessuno ne avesse a soffrire, magari con ironia, certo sorridendo. Anche io una volta presi uno schiaffo da un superiore. Neanche io lo meritavo. Nel corso di una discussione dissi “azz”, che per me voleva dire (e vuol dire tuttora) “caspita” (hàspita); invece fui accusato di dire una parolaccia. Fui dispiaciuto, ma non tanto per lo schiaffo ricevuto, quanto per non essere stato creduto. Se poi ti dico che ho preso anche uno schiaffo da un prefetto per “ritardare le pratiche mattinali”, allora mi capirai ancora di più. Anche Fratel R., il tuo amico dalla lunga barba bianca (quella sì da figurine di “Marcellino pane e vino”), spesso e volentieri si rendeva antipatico facendo lo scorbutico, cercando un’ironia che non sempre gli riusciva … solo tu eri sempre simpatico, solo tu comunicavi con noi irradiando serenità e armonia.

E ti ricordi quel giorno agli “Scandoni”? Già! Tu non sai cosa sono gli “Scandoni”! Si tratta di quel terreno dove mi venisti a cercare, nel lontano settembre di oltre 30 anni fa, insieme al prefetto Nicola, per annunciarmi che l’ingresso nell’Istituto era ritardato di una decina di giorni. Ricordi ora? Coloro ai quali chiedesti informazioni ti fecero lasciare la vecchia Cinquecento familiare (c’è sempre una Cinquecento nella mia vita) sulla strada e ti consigliarono di andare a piedi. Il prefetto Nicola era giovane, vigoroso, poco più che ventenne, ma tu sicuramente arrivasti molto stanco … eppure sorridevi nascondendo meravigliosamente la tua stanchezza, quasi sembrando che fossi giunto volando. Quando vi vedemmo arrivare fummo tutti sorpresi, ma io diventai improvvisamente importante perché due persone della vostra portata erano venuti, apposta per me, addirittura da Salerno. Da quel momento non fui più uno confuso fra i tanti.

Carissimo Pompeo,

quella “camminata” ti fece guadagnare la stima incondizionata della mia mamma. Ed infatti fu a te che mi affidò; fu a te, più che a P. Aniello, che pure era mio compaesano, che chiese di darmi un “occhio”; fu a te che chiese di farmi bere un po’ di birra la domenica mattina. E, contravvenendo alla regola che vietava agli apostolini di bere birra, ogni domenica tu compravi una “mezza birra” e me ne davi mezzo bicchiere. Io non l’ho mai ritenuto e quindi confessato come peccato, ma sicuramente il fatto mi faceva sentire legato a te in un vincolo di complicità. Ti ricordi chi era che ci faceva compagnia? Un altro simpaticone: il prefetto Nicola. Noi tre eravamo legati dal nostro incontro agli Scandoni. E poi … anche il prefetto Nicola era buono, umano, sereno. E, passando un giorno davanti al bar vicino all’Istituto, quello quasi a fianco della chiesa, fu proprio lui a dirmi che solo là vendevano la birra che ci piaceva. Da allora la “nostra birra” diventò la mia “bionda” preferita.

Fin dai primi giorni vidi in te qualcosa di misterioso, di magico, di divino. Mi chiedevo per quale motivo ti chiamavano “fratel di spirito” e non trovavo una risposta plausibile. Dal momento che da pochi mesi avevo ultimato la raccolta di figurine di “Marcellino pane e vino”, cercai lì una risposta … a chi paragonarti? C’era Fra Pappina, Fra Din Don, Fra Malato … ma un Fra di spirito? Eri per caso l’addetto alle preghiere? Responsabile forse della tutela dello spirito di tutta la gente dell’istituto? Magari eri addirittura l’intermediario tra il mondo e Dio? Che fantasia … poi seppi che “Di Spirito” era il tuo cognome e da allora comincia a chiamarti con il tuo nome di battesimo: Pompeo.

Fu così che fosti la prima persona importante, il primo superiore che ho chiamato con il nome di battesimo, il secondo, dopo tanti anni, fu P. A., ma allora già non stavo nell’Istituto. Poi basta: per tutti “cognome” e “lei”.

Chiamarti con il nome di battesimo mi faceva sentire importante, mi faceva sentire uno dei grandi, uno dei superiori, responsabile dell’Istituto, e non solo per essere il più anziano degli apostolini, il primo ad aver messo piede in quell’edificio, quando era ancora tutto da costruire e noi vivevamo al pian terreno. Quell’Istituto, si può dire, l’ho visto crescere … per questo ho sofferto quando ho saputo che era stato chiuso per “mancanza di vocazioni”, ma probabilmente anche per colpa degli errori di qualcuno.

Caro Pompeo,

non ho avuto molta fortuna … ma questo non è una novità. Già nell’istituto (e anche prima) non me ne andava bene una: non vincevo mai a tombola, non ero mai estratto quando c’era da vincere qualcosa, ero più sfigato di Paperino … tutti gli apostolini avevano un benefattore o una benefattrice. Anch’io avevo una benefattrice, una povera vecchietta che sicuramente si toglieva qualcosa dalla bocca per darla all’istituto, alle missioni. L’ho vista una sola volta; mi regalò una scatola di cioccolatini; mi chiese di pregare per lei; l’ho sempre fatto. Diversa era la sorte degli altri. Il mio amico Giuseppe ebbe come benefattori una coppia di coniugi, giovani e ricchi. Ogni domenica venivano a fargli visita, lo conducevano a passeggio per Salerno, gli portavano in dono vestiti, dolciumi, giocattoli, scarpe da tennis, da calcio, completi da gioco, tute sportive e tante altre cose che io potevo solo sognare. Come lo invidiavo! Una domenica fra le altre cose gli portarono una tuta da ginnastica che gli andava stretta; nessun problema: adottarono un altro apostolino, Nicola … te lo ricordi? Ora mi sembra che sia un dottore della mutua.

Io invece … è stato come se un dio crudele, in un crescendo kafkiano, mi avesse voluto punire di colpe che non conosco. Tanti piccoli episodi finché non mi ha dato il colpo di grazia. È come se mi avesse tolto lo spirito vitale, la forza e la voglia di andare avanti, mi avesse nascosto i dieci talenti che pure mi erano stati donati. Giorno dopo giorno mi sono accorto di avere sempre meno voglia di lottare, di agire; mi sono scoperto privo di stimoli e di scopi, senza ideali ... inutile. A dire la verità, anche quando stavo nell’istituto non sapevo cosa avrei fatto nel futuro, né ero sicuro circa il mio avvenire. Avevo forse vaghe idee da mettere a fuoco, orizzonti sfumati, sogni confusi e chimere sfuggenti … di sicuro c’era in me tanta rabbia e la voglia di emergere, di non essere secondo a nessuno, in attesa di sapere perché. Quando misi piede nell’istituto ero il più piccolo, ero il più goffo, ero scarso in tutto: non sapevo fare quasi niente. Facevo tenerezza, ma non ero affatto buono, anzi diventai spietato dove potevo permettermelo: a scuola distruggevo chi mi era antipatico, umiliavo gli avversari fino a farmi odiare. Non mi importava niente di essere malvisto, anzi più ero odiato e più la rabbia mi cresceva e mi spingeva ad emergere, a vincere, a superare gli altri. Vincevo dovunque potevo e per il resto preparavo le mie rivincite. Non sapevo giocare a pallone ... cominciai ad allenarmi da solo ed un giorno accadde che tutti si contendevano il merito di essere stato mio maestro. Diventai il miglior terzino volante, un fortissimo attaccante, un ottimo portiere. Non avevo mai visto un calcio balilla. Dopo pochi mesi non avevo rivali, tutti mi volevano come compagno. Poi … come il mitico Capaneo sono stato fulminato da un Giove geloso di essere stato sfidato ed è cominciata per me una lenta, ma inarrestabile decadenza. Non me ne è andata bene una, e soprattutto non ho più incontrato qualcuno che mi desse una mano, mi aiutasse quando la lotta si faceva più dura e gli avversari si moltiplicavano, gli ostacoli diventavano più ardui e difficili da superare. Non solo non mi hanno aiutato, ma mi hanno addirittura succhiato il sangue e poi lasciato solo contro i mali del mondo.

È stato sempre così!

A volte, a dire il vero, mi sono trovato ad un punto dalla svolta definitiva, con la vittoria che sembrava a portata di mano, quando davvero pareva che il destino avesse smesso di divertirsi con me. Già sorridevo … la coppa pronta per essere levata in aria … i calici pronti per essere riempiti … Macché! C’era sempre il trucco: il fato o barava o bluffava … ed io continuavo a perdere.

Probabilmente non dovevo uscire dall’Istituto … ed infatti non volevo. In un primo momento mi accordai con il rettore pro-tempore (quello che aveva deciso la mia espulsione) di lasciare ogni decisione a Padre A. che in quel momento si trovava fuori dell’Italia. Fu davvero una bella mossa. Egli mi conosceva bene; era mio paesano; era mio amico; mi avrebbe difeso … invece inopinatamente ai primi di settembre mi feci dare il nulla osta dal seminario andai via, facendo il gioco del rettore. Don Antonio mi invitò a restare in Seminario, almeno ad ultimare il liceo come studente esterno, come stava facendo Mario, per evitare l’impatto con una realtà che non conoscevo. Altri supplicavano per avere questa possibilità, io invece la sprecai … e mi iscrissi ad Eboli. Errore su errore! Padre Aniello avrebbe avuto ancora la possibilità di rendermi giustizia, di rimettere a posto le cose ed io sarei rientrato nell’Istituto non sconfitto … in attesa di tempi migliori. Padre A. mi voleva bene davvero e mi voleva nell’Istituto perché credeva in me, forse più di quanto ci credessi io stesso. Invece distrussi tutti ponti che avevo attraversato. È stata una mia idea fissa quella di distruggermi i ponti alle spalle … purtroppo ho distrutto sempre quelli sbagliati, lasciando integri quello che non avrei dovuto. Bah!

Sarei diventato missionario? Non lo so! Forse no! O forse si? Anche se mi accusano di bieco razzismo, mi è sempre piaciuto aiutare gli altri e bisogna pur ricordare che ero capace di momenti di sacro furore … occorreva darmi lo spunto, la carica, la motivazione. Padre Aniello sapeva motivarmi, caricarmi. Quante volte siamo andati insieme a predicare nelle chiese, a parlare con le famiglie? Andare con lui era un premio che ricevevo spesso e lui mi insegnava tante cose, mi consigliava sul da farsi. Purtroppo nella mia vita non ho più incontrato gente come lui o che almeno gli somigliasse un poco … sono rimasto solo. Non ho incontrato nessuno che mi desse una mano, giustificasse o almeno capisse i miei errori, mi consigliasse; sempre più spesso ho incontrato inquisitori pronti a condurmi sul rogo, a scagliarmi la prima pietra per la mia lapidazione, a spingermi nel fosso dal quale cercavo di uscire.

Ho sbagliato molto, questo è vero, ma è pur vero che sono stato tradito più volte ed in più modi e mi ritrovo quasi vecchio, deluso, a vivere di utopie, sognando l’avvento di un Tommaso Campanella o il ritorno di un Aulo Vibenna, ad auspicare una Città del sole che non vedrò mai. Se rinascessi! Quante volte mi sono chiesto cosa farei se rinascessi. Veramente mi piacerebbe vivere nell’antica Etruria, a Veio; sarebbe bello reincarnarmi nel corpo di un magistrato, uno zilath o un purth, oppure mi piacerebbe essere un aruspice per saper interpretare e seguire la volontà di Dio. Per ogni mia azione importante chiederei gli auspici e gli dei non mi farebbero più sbagliare. Se invece dovessi rinascere ancora in questa epoca e nel mio paese, se dovessi rinascere quello che sono … che ti devo dire? Fino a dieci anni sarei senza speranze di cambiamento. Poi entrerei nell’Istituto? Forse no! Così decidendo, però, dovrei rinunciare a tante cose che non vorrei perdere, a tutte le cose belle che l’Istituto mi ha dato, alla tua amicizia, alla stima del professor Annunziata! Allora entro nell’istituto! E poi? Esco o faccio l’impossibile per restare? Se resto, mi tocca rinunciare a tante cose che pure la vita mi ha dato. Se me ne vado … Non è cambiato niente …

… Non vorrei rinascere!

Addio!

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