A chi legge

Da Pklab.

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A CHI LEGGE


Tutto passa,
tutto se ne va

Prefazione

A chi legge

Epistole … quante lettere ho scritto dal 1968 in poi? Tante, tantissime, a mezzo mondo: amici, conoscenti, parenti, gente estranea. Un tempo l’umile, economica lettera era il solo modo per informare chi ci stava lontano di quello che ci succedeva e che accadeva intorno. Il veloce telegramma, breve e costoso, era inutile ed era usato solo in occasione di disgrazie ... poi anche per gli auguri.
Il telegramma, però, era sempre qualcosa di eccezionale, il suo arrivo ci spaventava, ci preoccupava, ci intristiva, ci angosciava … La lettera invece ci portava la normalità, la vita quotidiana, la gioia … a volte giungeva a destinazione quando le notizie che conteneva erano già ampiamente superate, ma per il destinatario erano pur sempre una novità. Capitava che una lettera impiegasse giorni, settimane o mesi prima di poter essere recapitata, a volte per colpa di un servizio postale inefficiente, ma quando ti arrivava la prendevi con delicatezza, la rigiravi tra le mani con emozione, l’aprivi con cura, quasi per non farle male, la leggevi con trepidazione, la rileggevi per essere sicuro di aver capito bene … erano i tempi delle frasi fatte, degli inizi tutti uguali, del tempo, della salute, dei gatti. Ogni lettera che si rispettava iniziava con la canonica frase dove cambiava solo la persona cui si scriveva “Cari (….) vi scrivo questa lettera (l’alternativa era: “questi pochi righi”) per farvi sapere che sto bene e così spero anche di voi”. Non si riusciva ad iniziare una lettera con parole diverse. Le frasi fatte, però, avevano lo stesso problema di quello che oggi è definito “effetto computer”, cioè causavano errori dovuti alla ripetitività … ed infatti avvenne che un giorno un anonimo olevanese, essendo ammalato, fece una figura da chiodi: “Cari genitori, vi scrivo questi pochi righi per farvi sapere che non mi sento tanto bene e … così spero anche di voi”.
Appartiene ormai alla leggenda anche un altro episodio, quello di un altro mio compaesano che scrisse “A mio figlio che fa il soldato a Napoli”. Chi sa se quella lettera giunse mai a destinazione. Il resto è storia.
È dei nostri giorni l’episodio di quel postino olevanese che nella buca delle lettere in partenza trovò una busta non solo senza mittente, ma anche senza destinatario… evidentemente qualcuno aveva una grande fiducia nelle tanto vituperate poste italiane. Ci facemmo un sacco di risate quella mattina con il postino alla pompa di benzina. Il poveraccio non sapeva che pesci pigliare: avrebbe voluto che quella missiva giungesse a destinazione, ma come? Non c’era nessuna indicazione, neppure la possibilità di rintracciare il mittente senza aprire la busta … chi sa come andò a finire.

Ho scritto davvero molto, a volte scrivevo anche più di una lettera al giorno.

Il perché di tutto questo scrivere è facile da spiegare: nel periodo in questione il telefono non aveva ancora distrutto il piacere della missiva, l’odore della carta e dell’inchiostro; la lettera era (ed è) in ogni caso più fine e profonda della telefonata … e poi, diciamolo pure, a me piace molto scrivere e considero le parole messe sulla carta più sincere e umane di quelle dette per telefono. Le puoi leggere e rileggere, gustarle una dopo l’altra, masticarle con calma, assaporarle e riassaporarle, ritornare indietro per riprovare lo stesso piacere tutte le volte che vuoi …
... per questo odio il telefono, il fax e diavolerie varie.

Le lettere hanno riempito tante mie ore, tanti miei giorni … la mia vita per molti anni, fin dai tempi dell’Istituto. Allora le mie lettere le scrivevo ai genitori perché non sempre la domenica potevano venire a farmi visita ed il telefono nella mia vecchia borgata era un lusso di pochi, forse di nessuno; poi vennero quelle dirette agli amici che erano andati via, poi a tutti.

Nell’Istituto c’era una forma, neppure tanto mascherata di censura … i ragazzi lasciavano le lettere aperte, poi i superiori provvedevano a correggere eventuali errori, a chiudere le buste ed imbucarle. Non so quali erano le “correzioni” che facevano i superiori … sicuramente non impedivano alcune gustose chicche come la famosa “ … vi mando la corona perché ho perso i misteri e non posso più pregare” o l’altrettanto conosciuta “…soltanto ci fanno mangiare sempre costatelle di mare”, entrambe di mio fratello. Anche oggi, a distanza di tanti lustri, queste due battute fanno ancora ridere chi ci conosce, fanno parte del repertorio della nostra infanzia e se le “costatelle di mare” suscitarono scalpore solo per il fatto che parliamo di un periodo di fame e fuga, la “perdita dei misteri” restò per i miei genitori un arcano che solo qualche anno dopo chiarii. Potei farlo perché ero stato involontaria causa e protagonista. Cosa era successo dunque? Mio fratello avevo perduto il foglietto su cui c’erano scritti “i misteri” del Rosario (quelli Dolorosi, Gaudiosi e Gloriosi, per capirci). A questo punto egli, ritenendo di non essere più nelle condizioni di recitare il Santo Rosario, decise di inviare alla mamma la corona, diventata oramai un inutile orpello. Fu così che mise la corona nella busta insieme alla lettera. Prima di spedirla, me la passò affinché potessi aggiungere anche i miei saluti; io tolsi la corona che, dato il peso e soprattutto il volume, avrebbe richiesto un piccolo pacco postale e sicuramente avrebbe comportato una soprattassa. Così a casa arrivò quella lettera strana, che preannunciava una corona che non c’era e parlava di misteri andati perduti.

Dopo la scuola media, al ginnasio, poteva imbucarle da solo perché andavamo a scuola in Seminario, ma quelle in arrivo? Forse eravamo un po’ esagerati e la situazione non era per niente drammatica! In prima liceo, infatti, potevo ricevere tranquillamente la lettera di una ragazza (conosciuta in estate e poi trasferitasi al Nord, credo) allo stesso modo di quella di un ragazzo che era andato via qualche anno prima, non ricordo bene se in terza media o in quarto ginnasio.

In ogni caso non ho conservato quelle lettere perché non ne facevo una copia … e me ne rammarico. Dell’enorme corrispondenza che mi è pervenuta in circa 15 anni mi è rimasto ben poco: qualcosa è andata persa durante il terremoto (sicuramente insieme alla raccolta del “Male”), altro perso durante traslochi e trasferimenti vari, altro ancora distrutto per incuria o distrazione. Le poche epistole che si sono salvate, però, hanno tutte un mittente particolare.

Un aspirante sacerdote … conosciuto in seminario, quando io frequentato il primo liceo e lui era al terzo. Non eravamo amici quando vivevamo sotto lo stesso tetto, ma lo siamo diventati dopo. L’ultima volta che l’ho visto fu quando venne a farmi visita a casa; ricordo che dopo la sua partenza mi accorsi che aveva lasciato una busta di plastica contenente un pacco di zucchero e uno di caffè? Da allora mi è rimasto il dubbio: l’aveva dimenticata o era un pensiero per non presentarsi, come si suole dire, con “le mani in bocca”? Ha raggiunto la sua meta … è diventato prete.

Un missionario conosciuto quando ero in quinta elementare ed egli venne in classe per chiedere chi voleva diventare missionario. Una guida, un faro, un amico. Ci siamo persi di vista e rincontrati, ripersi e ritrovati. L’ultima volta che l’ho visto fu più di dieci anni fa, quando venne a farmi visita a casa. Avrei voluto dargli del denaro per la sua missione … Ho saputo che l’anno scorso ha celebrato una messa che ha commosso tutti i fedeli.

Un’amica …. uno spirito ribelle. Non ricordo quando è stata l’ultima volta che l’ho vista, sicuramente è passato quasi vent’anni … e mi dispiace. Se per caso ci incontrassimo, forse sarei oggetto del suo biasimo. Non so dove sia e cosa faccia … e non l’ho mai chiesto.

L’ultima lettera è una lettera ufficiale, di un sindaco. La riporto solo per l’interessante contenuto storico – culturale.

Ora non scrivo più … il telefono, il fax, l’e-mail mi hanno distrutto anche questo piacere e se anche scrivessi … nessuno più mi risponderebbe.

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